Gli ultimi giorni di Marco Pantani di Philippe Brunel

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Marco Pantani, il ciclista noto anche alle pensionate di Voghera, che esce fuori dal libro di Philippe Brunel “Gli ultimi giorni di Marco Pantani” è un’icona straziante dei nostri tempi che maciullano i talenti e assopiscono le voglie per scopi esistenziali inutili ma di facciata, come l’auto potente sempre un km all’ora più veloce, la donna al proprio fianco più sensuale, sempre un centimetro quadrato in più di corpo siliconato, la seratina sballata, per ridursi a fantasmatico visitatore di una realtà che non si capisce bene perché non è accettata per quello che mestamente propone.

Pantani era un ragazzino mai al centro delle attenzioni degli altri; le ragazze lo guardavano con profumata indifferenza, gli amici lo tenevano appresso per pigrizia, la madre e il padre lo conoscevano senza caprine in fondo l’immaginazione. Poi ad un tratto diventa il migliore ciclista del pianeta e il mondo inizia a guardarlo fisso, senza staccargli i terribili occhi di chi chiede.

Ma Pantani dà, senza risparmio. Adesso che qualcuno aspetta che Pantani Marco respiri per applaudirlo, il Pantani Marco si concede in tutto, corpo e pensiero.

Dà tanto, troppo, tutto. Qualcuno decide che basta così. Giunge il tempo di fluttuare sulle corde della mediatica esistenza-inesistenza. Essere l’unico gallo del pollaio spettacolar-sportivo alla fine stanca lo spettatore-tifoso. E questo non deve mai accadere. Altrimenti poi l’audience.

Possono essere state le scommesse illegali, le analisi del sangue fasulle, i reclami del patron della Mapei, gli americani che vogliono far esplodere Armstrong senza ostacoli tra le ruote, gli organizzatori del Giro d’Italia che vogliono dare un freno al doping necessario, ma di fondo c’è la volontà che è nello sport contemporaneo di far apparire stelle dal tragitto veloce, con un ciclo di vita mediale breve ma intenso, che sappiano carpire nel giro di cinque anni gli animi sempre vogliosi d’altro di spettatori fiacchi e distratti.

Tutto questo è accaduto a tanti ed è successo a Pantani. Quasi tutti hanno compreso la fondamentale tempistica del: “Non è più il mio momento”, e sono tornati nella cuccia dell’autografo per pochi intimi, Pantani non ha voluto farlo e di fronte alla incapibile realtà del biz quotidiano, ha aggredito l’unica persona con cui poteva prendersela: se stesso.

La droga è l’aculturale spia di una stanchezza d’interessi e piaceri. Dopo Madonna di Campiglio, Pantani, che viveva solo di vittorie per mostrarsi migliore per sé e per gli altri, poteva vivere qualche altro anno solo attraverso di essa. Come ha fatto, violentando un corpo costruito per la corsa in bicicletta.

Fino a morirne, non semplicemente suicidato, ma assassinato da un mostruoso altro da sé, che in quantità sempre maggiori si possono vedere, magari uscendo stasera, vagare lemmi e farfuglianti nei pressi delle discoteche di mezza Italia.

Il libro di Philippe Brunel è una stilettata profonda nel cuore del lettore. Fa un male cane vedere come è lo sport crudele, il ciclismo balbettante, le nuove generazioni non appassionate, l’Italia gretta e vigliacca, il senso di famiglia irritato, i media irrispettosi e noi distratti e ignoranti di fronte ad un uomo che, anche se nel silenzio dei cazzi suoi, gridava aiuto.

All’ultima pagina si pensa per qualche minuto ai tanti pomeriggi del Pantani show, con la malinconia dell’attimo che riusciamo a spegnere subito per borbottare contro la benzina che costa troppo.

9 risposte a “Gli ultimi giorni di Marco Pantani di Philippe Brunel”

  1. Personalmente tutta la vicenda di Pantani su di me ha avuto lo stesso effetto del primo scandalo del calcio scommesse. Al di la del perché e del per come, viene alzato, anche solo di qualche centimetro, il coperchio della pentola e viene fuori un letamaio insopportabile. L’amara conclusione per me è stata in entrambi i casi la stessa. Per chi vuole continuare a seguire da spettatore lo sport, meglio non sapere tutto e non vedere, o almeno fare finta di non vedere e di non sapere.

  2. @kalz: io e il mio amico Pierluigi diciamo sempre quando ci incontriamo che la vicenda di Madonna di Campiglio è la fine della nostra adolescenza. La fine di tutti i sogni sciupanti di quando si crede che il mondo è piccolissimo e ce l’hai intorno.

    Quel giorno di Madonna di Campiglio era il nostro utlimo giorno di liceo e da allora siamo diventati un po’ più grandi ma anche più tristi.

    Pantani per me è stato anche questo.

  3. @ivan1980: temo proprio che chi prima (come me) o chi dopo (come te) ci siamo passati tutti. Tappiamoci, naso, occhi e orecchie e andiamo avanti. Non vedo altra soluzione 🙂

  4. Mah, l’Olimpiade di Roma come fine dello sport puro perché proprio in quell’Olimpiade sono nati sportivi “spettacolari”, o meglio (ma questo nell’articolo non esce come dovrebbe) spettacoli sportivi. Mah, non so.

    Roma ’60 è stata un’Olimpiade dove si è cercato di calcare parecchio la mano sugli aspetti scenografici, ma non è stato solo questo ovviamente.

    L’idea che in questa Olimpiade siano venute fuori star sportive “particolari” (donne, neri, persone con storie molto particolari, ecc.) non è completamente giusto. Prima di Roma ci sono stati indiani d’America che vincevano per gli Stati Uniti, ungheresi che si sfidavano sovietici in vasca, vincitori di 5.000, 10.000 e maratone con un’espressione da tragedia popolare, insomma i plot ci sono stati eccome.

    Per me non è cambiato tutto da lì.

    La storia di Berlino ’36, della razza che dovrebbe vincere per mostrare le sue doti al mondo (appena vedi Olimpya di Leni Riefenstahl ti accorgi di questa scelta forte) ad esempio è un primo plot narrativo costruito ad hoc sulla purezza dei Giochi.

    E questo plot ha assunto non solo l’ovvio gusto politico, ma anche un retrogusto di spettacolo, come lo intende David Maraniss, deciso.

    Tu che dici?

  5. In linea di massima sono d’accordo con te. Basti pensare alla vicenda di Dorando Pietri che risale al 1908 o a quella Owens-Long del ’36. Tra l’altro le Olimpiadi di Roma sono state considerate le ultime a dimensioni umane, ma forse è un’ottica un po’ troppo di parte (italiana intendo).

    Probabilmente con gli anni ’60 la differenza l’ha fatta il massiccio ingresso della televisione.

  6. Beh certo, la tv sicuramente ha cambiato i parametri di approccio del tifoso all’evento sportivo, ma le Olimpiadi hanno qualcosa di “diverso” da sempre come tu hai evidenziato.

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