Il libro di Fausto Batella, “Jack Kerouac Halfback. Il protagonista della beat generation e il gioco del football”, riesce, per immagini e sensazioni, a ridare il mood di Kerouac, la sua visione delle cose, il suo strascinato viversi addosso. Non è facile in un testo che ha come primo obiettivo quello di parlare degli anni nascosti di un intellettuale che di quegli anni sembra essersene dimenticato in fretta, scrivendo di una frontiera esistenziale e di stile che per forza di cose guardava al futuro. Eppure le partite assolate e nitide di Lowell, le speranze svogliate di diventare un runner coi fiocchi, il viaggio del passaggio di livello verso New York, il morbido intermezzo della Horace Mann e la prima esperienza dove gli altri diventano veramente altro alla Columbia, sono i rivoli che conducono al grande fiume, tutto americano, del prendere e vivere a proprio modo il tempo. Batella scava in diversi pozzi e ne estrae liquido affascinante, molto saporito se si pensa che il tema, lo scrittore e la sua giovinezza, ha generato spesso mostruose derive. Il football per Kerouac è uno sport o qualcosa di più?, la domanda che il critico deve farsi, a questo punto scappa. A leggere Batella, Kerouac non era attento allo stress delle statistiche tipico dell’onanismo sportivo americano, mentre conosceva tutto dello stare in campo e del voler vincere. Il piacere del vento, del fango, del colpo, della sensazione del pallone addosso valeva più del touchdown. Anche da questo si capisce perché a un certo punto Kerouac ha preso il suo tempo e si è messo sulla strada.