"Pablito Mon Amour" di Davide Golin

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L’amore per i miti d’infanzia è come le aziende (e il marketing ce lo spiega benissimo). La fase di start up è quella più affascinante, si scopre il mondo del nostro uomo (o donna, per quelli che sono già un passo più avanti) e si pesca a piene mani nei nostri desideri primordiali, che si sintetizzano in: “Vorrei diventare come lui”. La fase di ascesa poi tocca l’acme quando, da ragazzini, abbiamo esperienza in qualche modo del nostro mito; lo incontriamo per strada, guardiamo una sua performance e pensiamo che la stia realizzando per noi, litighiamo con qualche compagno di banco perché lui tiene per l’avversario diretto. Questa è la fase del matrimonio con il proprio mito, sincero e indimenticabile per il resto della vita. Arriva poi una fase di stabile maturità nei rapporti con il nostro, ne seguiamo le gesta ma ci rendiamo conto che è troppo anche degli altri per non allontanarsi un po’, e con i 14 anni inizia la fase di declino; lui ormai non gioca più come prima o non fa più gli stessi dischi del suo primo periodo, noi abbiamo conosciuto altri mondi e siamo partiti per altri lidi, iniziamo a pensare di conoscere troppo bene le cose del mondo per essere ancora pazzi di qualcuno.
Il processo completo spesso ce lo raccontiamo, con nostalgico imbarazzo.
Davide Golin, nel suo Pablito Mon amour edito da NoReply Edizioni racconta questa piccola-grande storia che ci accomuna, noi mortali che sogniamo l’immortalità della fama.
Essendo così diffuse, di storie come queste sono piene gli scaffali, ma Golin, grazie alla sua leggerezza vissuta e non immaginata, riesce a dire qualcosa di nuovo. Non so se volutamente, ma lo stille, i richiami al mondo giovanile del periodo e soprattutto il ritmo narrativo della storia personale che si confonde con quella pubblica, richiama tantissimo un libro che del genere potremmo dire ormai (a loro insaputa, magari) è un riferimento, “Juve, Inter, Milan? Meglio il Foggia”, del collettivo Lobanovski, da poco riedito con grande arguzia da Bradipolibri.
Come il libro del collettivo foggiano, i rimbalzi della storia tra Golin e Paolo Rossi parlano di molte cose: un luogo che viene scoperto, insieme ad una nazione, una realtà che viene vissuta, senza le remore da videogioco di cui oggi i ragazzini sono pieni, una storia d’amore vera e propria, perché pensare e palpitare per qualcuno/qualcosa è amore, per fortuna.
Una cosa che Golin sa fare perfettamente è usare i sentimenti. Non si abbandona all’ode dei tempi passati, quando i giovani “incanalavano il loro furore verso il meglio”, ma parla della sua storia con gli occhi di oggi, di quello che è diventato e siamo diventati, senza dirci in continuazione: “Eh prima… era tutta un’altra cosa”.
Quello che lui ha vissuto con Paolo Rossi lo sta vivendo qualcuno oggi per Pato e Cavani, e la faccia da neonato di Pablito rispetto a quelle robotizzate degli altri due non sottintende per forza un sentimento più vero e puro.
Da leggere e ricordare i passi della storia personale trafitti da stralci di interviste e articoli, un bel modo per mischiare saggio e romanzo, senza far disperdere il filo narrativo.

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