Le parole che valgono più di un centravanti

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Questo pezzo nasce da una serie di immagini confluite chissà perché in un unico posto del cervello. La prima immagine era di una partita della Nazionale in estremo oriente, non ricordo in verità di quale partita si tratta, vado a memoria senza appigli. I tifosi avversari ci gridavano “Catenaccio”. I giornalisti commentarono che lo facevano per sfotterci, mentre io chiesi ad un ragazzo giapponese molti anni dopo e mi disse che lo facevano per sottolineare una nostra peculiarità, quasi per adularci. Usiamo una parola che nel calcio voi avete introdotto per sottolineare la vostra tradizione, la vostra bravura e per rendervi onore.
Durante le partite di sabato ai Mondiali di Russia invece ho altre due immagini dentro la testa. La prima è quella di Yung, centrocampista della Corea del Sud che sbaglia un tiro, si gira di scatto e dice chiaramente: “De puta madre” (non ha mai giocato in Spagna).
La seconda immagine è di Reus che pareggia contro la Svezia, corre verso il centrocampo per riprendere subito il gioco e dice a sé e ai compagni “Vamos!” (non ha mai giocato in Spagna).
Queste tre immagini mi hanno fatto elaborare dei pensieri.
Quando i coreani (non ricordo se erano ragazzi coreani o giapponesi, per farla facile diciamo coreani) usavano parole italiane per parlare di calcio, noi eravamo al top, tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del nuovo millennio, le nostre squadre di club arrivavano in finale di Champions League anche in coppia è da lì a poco avremmo vinto il nostro quarto mondiale nel 2006.
Oggi quello che facevamo noi in quella fase storica riesce alla grande alla Spagna e il vocabolario è cambiato, con l’ingresso di tante parole spagnole, come se usando le loro parole gli altri pensano di avere la loro bravura, il talento e la forza.
Spiegato il perché ieri si utilizzava “catenaccio” e oggi si grida “Vamos”, è importante procedere nell’analisi e farne un discorso sulle identità.
Io sarò eternamente grato al mondo globale. Se qualcuno legge questa cosa che sto scrivendo è perché posso andare al di là della piccola dimensione territoriale in cui sono nato e cresciuto, per cui questo mondo è fantasticamente più bello e pieno di opportunità rispetto al passato e dobbiamo esserne solo felici.
Quello che odio però è l’omologazione. Non io, che sono l’ultimo degli stronzi, ma Monchi pochi giorni fa, nel momento in cui la Roma certifica l’acquisto di Cristante, ha detto che se ci si vuole affermare ad un livello globale, come quello delle sfide europee nel calcio, bisogna avere una fortissima identità nazionale, se non addirittura territoriale, da cui partire per costruire poi una vera dimensione internazionale.
Questo è assolutamente rivoluzionario nel calcio italiano e non solo.
Nel calcio, ma io mi allargherei alla società, abbiamo lasciato il discordo sulle nostre identità specifiche solo ai sovranisti, ovvero a chi vuole imporre la propria identità come negazione rispetto alle altre e non come differenziazione positiva. Se restiamo nel nostro, dire e far giocare i giovani italiani invece degli stranieri è una cazzata, creare un’identità italiana è il futuro.
L’altro non lo dobbiamo solo accettare, lo dobbiamo conoscere a fondo, dobbiamo imparare tutto da lui, farlo diventare fratello, ma non ha senso voler diventare lui, scimmiottandone le specificità, nello sport vuol dire partire battuti. In questa fase dobbiamo essere influenced più che influencer, ma pensando di diventare di nuovo i migliori.
Quindi, per spiegare meglio, l’identità italiana deve affermarsi nel calcio, il che non vuol dire “prima i calciatori italiani”, ma creare un ecosistema basato su valori, concetti chiave e parole (perché le parole sono molto importanti) che siano molto italiani, completamente basati sulla nostra tradizione e la nostra specifica idea di futuro.
Per dirlo in maniera ancora più semplice e pratica: se un calciatore nato a Castelfranco Veneto invece di sacramentare come sanno fare solo i veneti, dice “De puta madre”, bisogna cazziarlo come fa Gattuso per un passaggio sbagliato. Se siamo così omologati che anche le emozioni violente sono filtrate da un glossario di base che non è più nostro, bisogna incazzarsi. Se non cambiamo le parole, non potremo mai più lottare per vincere con chi possiede il vocabolario del calcio.
Piccola postilla: non so se dovremmo arrivare ai livelli di Insigne che urla “A bucchin’ e mammt” ad uno della panchina del Manchester City, però potrebbe essere un piccolo inizio che serve per traumatizzare tutti.

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