Letteratura Sportiva

La patina d’oro del regime e la rivoluzionarietà di Sebes. Intervista a Luigi Bolognini

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Nel febbraio 2007 la casa editrice Limina pubblica il romanzo-saggio di Luigi Bolognini “La squadra spezzata”, che racconta la storia di Gabor, un ragazzo ungherese degli anni ‘50 che cresce nel mito della squadra d’oro e finisce per capire, nel momento in cui arriva la sconfitta ai Mondiali del 1954 in finale contro la Germania Ovest, che quell’oro era solo una patina usata dal regime comunista per nascondere la sua barbarie. E con Gabor un intero popolo.

A distanza di due anni abbiamo contattato Bolognini che ci ha concesso un’intervista commentabile con un solo aggettivo: perfetta, per l’ampiezza delle tematiche trattate e le connessioni culturali evidenti in ogni risposta.

Ecco cosa ci siamo detti:

Il romanzo-saggio da Gomorra in poi è ormai in Italia un filone forte. Mi piacerebbe sapere secondo lei che è riuscito a costruirne uno intorno ad una tematica sportiva, se per questo particolare ambito letterario una categoria editoriale e di stile di questo tipo crea più o meno ostacoli?

Un romanzo-saggio in sé e per sé non crea ostacoli maggiori o minori. Quello che conta è la sua ambientazione, e lì dipende da quando si svolgono i fatti narrati. Perché se tutto succede nel tempo presente o nel futuro, non ci sono problemi. Se invece è ambientato nel passato, tutto deve essere curato nel minimo dettaglio, per evitare anacronismi, per ricreare l’esprit du temp. In sé la parte saggio non è poi più difficile di quella di un normale saggio. Certo, occorre cautela nel miscelare gli ingredienti, ma tutto sommato basta rifletterci un po’ e andare d’istinto. Alla fine se gli ingredienti sono giusti non dico che si mescolino da soli ma quasi.

Come è stato svolto il lavoro per la stesura de “La squadra spezzata”? Per mettere insieme il lavoro d’archivio, le ricerche sul posto e le notizie calcistiche quale metodologia di scrittura ha usato?

Molto semplicemente ad accumulo. Ovvero, man mano che trovavo qualche elemento, che fosse la descrizione di una partita, qualche fotogramma, un filmato, una testimonianza diretta, lo buttavo dove suppergiù credevo che si sarebbe integrato, sulla base di una succinta scaletta che mi ero creato. Dopo avere scritto quello che volevo, lo lasciavo lì, quasi a decantare, poi rileggevo e cercavo di unire questa nuova tessera del puzzle alle altre già presenti e di immaginarmi le nuove che sarebbero dovute arrivare. Insomma, niente di sistematico.

Parlando del suo libro, Antonio Ghirelli accenna a tre qualità che vi si possono trovare: competenza, intelligenza e mestiere. Quale di queste è la qualità di cui crede sia pieno il suo lavoro?

Questa è una domanda che a un autore di un libro non va mai fatta. Sono sempre gli altri a dover dare una risposta, perché il giudizio cambia di lettore in lettore, figuriamoci se si chiede all’autore stesso. È chiaro che io non posso contraddire un maestro come Ghirelli, specie quando parla bene di me, per cui posso solo dire che in effetti il mio libro è frutto di una competenza straordinaria, di un’intelligenza sovrumana e di un mestiere ormai rodato. Seriamente. Mestiere non posso certo averne essendo questo il mio secondo libro (e il primo di narrativa), intelligenza forse qualcosina ma insomma senza poi esagerare, competenza il giusto, ne sto acquistando forse un po’ per osmosi frequentando chi davvero ne ha, in primis Gianni Mura, Roberto Beccantini e Gigi Garanzini. Forse quel che c’è nel mio lavoro è il senso storico, ecco, quello sì, cioè la capacità di inquadrare le cose, legarle tra di loro, il considerare le coincidenze di date come qualcosa in più di un caso e qualcosa in meno di un messaggio preciso. Io ho cercato di muovermi nella terra di mezzo tra queste due cose.

L’Ungheria, come esponente della tradizionale scuola danubiana, aveva avuto sempre grandi interpreti e squadre temibili. Ma quale è stato il plus fondamentale che ha dato il là a quel gruppo di campioni e a quella squadra perfetta?

Anzitutto il fatto che la generazione nata tra le due guerre mondiali sia stata una nidiata clamorosa di fenomeni. Ogni tanto succede, e non c’è un perché, succede e basta. E poi il fatto che il regime filosovietico avesse cercato di imitare l’Urss dei piani quinquennali anche nello sport, mettendo a disposizione dei suoi calciatori e dei suoi tecnici (Sebes era un grande allenatore, l’ultimo di una grande scuola che aveva prodotto anche Arpad Weisz) la possibilità di realizzare un progetto di lungo termine in modo quasi scientifico. Tutto fu organizzato a misura delle richieste di Sebes, compreso il campionato di calcio, dove gli allenatori ebbero il consiglio (sarebbe meglio dire l’ordine) di giocare secondo lo schema della Nazionale. C’erano anche motivi di propaganda, ovviamente: i successi di quella squadra diedero lustro all’intero regime, sia a livello interno che estero. E altrettanto ovviamente l’insuccesso lo travolse, innescando la rivolta che poi sarebbe scoppiata nel 1956.

Lei avrà parlato sicuramente anche con persone che hanno vissuto quegli anni terribili accompagnati dalla paura, l’angoscia, la fame, la sofferenza. Ma davvero l’Aranycsapat per la gente comune era quel raggio di luce di cui lei parla nel libro?

Per quello che ho potuto capire sì. I racconti che mi sono stati fatti e che ho letto dell’attesa della partita Inghilterra-Ungheria del 23 novembre 1953 sono più che eloquenti: un Paese che si blocca per incollarsi alla radio e ascoltare la radiocronaca da Wembley, i giornali che escono in edizione straordinaria dopo il 6-3, le feste popolari quando la squadra torna in treno a Budapest. Quella partita fu il vero trionfo, ancor più della medaglia d’oro alle Olimpiadi dell’anno prima. Quella squadra faceva dire agli ungheresi: “siamo poveri, sfruttati dal regime, prigionieri in casa nostra, però quantomeno c’è qualcosa per cui l’Ungheria nel mondo è rispettata e ammirata, ed è questa squadra”. Teniamo anche conto che il colore predominante dei regimi filo-sovietici era il grigio, sia nel senso della burocrazia che nel senso dello smog delle fabbriche che dovevano garantire l’eccellenza socialista. Quella squadra era il Bello, la vedevi giocare e, anche a non essere un appassionato di pallone, ti catturava. Quando vado a presentare il libro, porto sempre con me un dvd della partita con l’Inghilterra, e c’è sempre qualcuno che alla fine viene catturato dalle immagini. E questo accade in tempi in cui le distrazioni possibili sono mille. Pensate come doveva essere magnetica quella squadra allora, quando altro non c’era per svagarsi.

Il suo libro tratta di un periodo storico ancora poco studiato e lo fa attraverso un’analisi molto profonda rispetto alla considerazione vigente secondo cui gli anni ’50 devono essere bollati solo come gli anni della definitiva costruzione dell’assetto della guerra fredda globale, il che fa perdere molte sfumature. Ritiene che il suo guardare ai fatti di quel periodo sia mosso proprio dalla volontà di scendere nelle viscere di quegli anni, senza fermarsi a categorie troppo fisse?

Non lo so. Per motivi anagrafici non ho vissuto quegli anni, quindi non so dire come fossero effettivamente e se ora vengono descritti in modo corretto o meno. Quello che so è che si tratta di un periodo che, visto adesso con vecchi spezzoni televisivi e film e letto su giornali e libri, mi sembra interessantissimo, ricco di fermenti, di moralismi, di spinte verso il nuovo, di sudore, di fatica e di fiducia nel futuro. Credo che i dolori del decennio precedente fossero ancora vivi e invogliassero a guardare avanti. Quanto alla guerra fredda, devo dire che il mio libro non smentisce le considerazioni storiche. Anzi, è chiaro che fu proprio a causa dell’assetto del mondo deciso a Yalta che nessuno intervenne in Ungheria, a contrastare i carri armati sovietici: l’Ungheria era zona di competenza dell’Urss, quindi era suo diritto fare quel che fece Questo fu il ragionamento che si seguì in politica internazionale.

Il calcio e lo sport in generale sono da sempre usati per scopi politici. Come può emanciparsi lo sport da questa catena a volte opprimente? E cosa dovremmo fare noi tifosi per non farci incastrare? Il calcio usato come propaganda è più una vergogna politica o una questione d’ignoranza del pubblico-tifoso-elettore?

Temo che la prima domanda sia senza risposta, nel senso che è appunto sempre stato così e sempre lo sarà, anche se non ci piace. Però non estremizzerei la cosa, nel senso che accanto a un Berlusconi, un Videla, un Rakosi o un Mussolini (mischio esempi diversissimi tra di loro, ovviamente), ci sarà sempre chi usa lo sport per altri motivi, magari poco nobili comunque, tipo fare soldi, oppure perché spinto da sincera e disinteressata passione. L’importante è saperlo, e a quel punto regolarsi con la propria coscienza: qualcuno farà prevalere la passione politico-civile su quella sportiva, qualcuno farà il contrario, qualcuno si sentirà un utile idiota e qualcuno no. L’importante è sapere cosa c’è dietro la propria squadra, la propria passione, e trovare un compromesso con se stesso. Senza portare il cervello all’ammasso. Oppure portandolo, ma facendolo comunque con consapevolezza. Il calcio come propaganda politica non mi piace, ma in fondo che differenza c’è dal calcio che fa propaganda a un marchio di una bevanda, a un telefonino o a uno stile di vita? Nel migliore dei mondi il calcio sarebbe il calcio e lo sport sarebbe lo sport, ma questo non è il migliore dei mondi, o forse è il migliore dei mondi possibili, che è diverso. Ripeto, le armi con cui ci si può difendere sono la consapevolezza e la coscienza: con consapevolezza e coscienza si può anche scegliere di suicidarsi, se lo si vuole.

In un’intervista ha detto: “il calcio è un fondamentalmente strumento di potere molto più che di rivoluzione, da Mussolini a Videla. Un modo con cui il sistema è riuscito a perpetuarsi”. Perché, secondo lei, il calcio ha questo virale conservatorismo impresso a fuoco che può servire a tenere a bada il pensiero differente?

Per il semplicissimo motivo che il tifo è anzitutto e soprattutto conformismo. Lo dico in senso neutro, oggettivo. In uno stadio si trova tutta gente che la pensa alla stessa maniera, tifa la stessa squadra, reagisce in modo uniforme alle azioni di gioco. Il diverso pensiero è poco ammesso, e forse è giusto così, nel senso che le regole sono quelle. Dopodiché aggiungo che ho parlato di Mussolini e di Videla, ma in realtà sarei potuto risalire agli antichi imperatori romani, “panem et circenses” o ai Borboni che regnavano a Napoli, “feste, farina e forca”. Insomma, la regola dei regimi è sempre stata quella di riempire la pancia – o almeno levare la fame nera – ai propri sudditi e di dargli qualcosa per distrarsi, per non fargli notare l’assenza di libertà e di diritti. Cioè i circenses, i giochi, le feste, la forca, e nei tempi moderni lo sport. E i regimi potevano essere anche di sinistra, vedi per l’appunto quelli ungheresi e di tutto il mondo sovietico.

Lei scrive che la sconfitta di Berna nella finale del Campionato del mondo contro la Germania Ovest servì a togliere al regime l’ultima maschera sotto cui nascondeva la sua terribile barbarie. Secondo lei può ancora una delusione sportiva far riflettere un intero popolo sulla sua condizione?

Sì, ma è difficile. Anzi, in realtà a mia memoria quello ungherese è stato l’unico caso in cui è successo qualcosa di simile, ma se è accaduto è perché il regime ungherese aveva puntato tutto sul calcio, senza cercare altre forme di controllo sociale e politico che non fossero la violenza e la delazione. Lungi da me il difendere Mussolini e il suo regime, ma se anche l’Italia non avesse vinto i Mondiali del 1934, il fascismo non sarebbe certo caduto né ci sarebbero state proteste. Perché in quel momento era indubbio, e in questo mi confortano gli storici, che il consenso fosse vero ed effettivo. Non sono certo le delusioni sportive a far riflettere un popolo sulla propria condizione. Al limite può valere il contrario, cioè le vittorie esaltano la considerazione che un popolo ha di sé. Benché pure questo non valga sempre, basti pensare al Mondiale 2006 che non ha certo migliorato le cose in Italia, a differenza del Mundial ’82 che fu un po’ il segno che la festa poteva incominciare dopo gli anni bui del terrorismo e dell’incertezza economica. Ripeto, l’unico caso a mia memoria di una delusione sportiva che danneggia in modo serio un regime è proprio quello dell’Ungheria nel 1954.

Grosics, Buzanszky, Lorant, Lantos, Bozsik, Zakarias, Budai, Kocsis, Hidegkuti, Puskas, Czibor. Tra questi chi erano le vere colonne della squadra e perché?

Facile dire Puskas,e infatti lui era sicuramente la stella, non solo per talento, ma anche per carisma. Ma ci sono almeno altri quattro giocatori che vanno citati. A centrocampo Bozsik, regista di stampo classico, uno di quelli capace di lanci di 40-50 metri sui piedi degli attaccanti, ma anche pronto ad arretrare in difesa quando serviva e perfetto ragioniere in campo, spettava a lui applicare al momento gli schemi migliori. Come molti registi aveva cervello e infatti diventò presidente del Comitato Olimpico ungherese una volta smesso di giocare. Poi Hidegkuti, che a livello tattico era la chiave della squadra con i suoi arretramenti a centrocampo che risucchiavano il difensore che lo marcava, aprendo spazi per gli inserimenti di Puskas e Kocsis. E poi le due ali, Budai e Czibor, che al talento individuale (soprattutto Czibor, maniaco del dribbling irridente) univano la capacità di trasformarsi da centrocampisti in punte effettive, allargando il gioco e facendo impazzire i terzini. Grazie a questi giocatori quello che potremmo definire con gli schemi attuali una sorta di 3-5-2 poteva trasformarsi in un 4-2-4 micidiale per talento, forza e imprevedibilità.

In cosa la strategia e i metodi di gioco ungherese anticiparono il calcio contemporaneo?

Il giocatore più moderno era appunto Hidegkuti, che in un calcio come quello attuale in cui le punte devono spesso tornare ad aiutare il centrocampo avrebbe spopolato. L’altra grande innovazione fu quella del calcio totale, nel senso che i giocatori sapevano fare di tutto, all’occorso: Hidegkuti appunto il centrocampista, Boszik lo stopper, Budai e Cizbor i centrocampisti, e così via. C’era sempre un uomo in ogni posto del campo che sapeva disimpegnarsi, in qualche maniera. Anche perché la tecnica individuale era di gran livello: sapevano tutti dribblare e sapevano tutti giocare d’esterno (e non a caso il tocco d’esterno era detto “all’ungherese”, ai tempi). E Sebes anticipò il calcio contemporaneo anche nell’esasperata preparazione di ogni match, ad esempio misurando l’erba di Wembley e tagliando quella dei prati ungheresi alla stessa identica altezza per meglio abituarsi ai rimbalzi del pallone. Senza contare l’aspetto tattico, ma lì forse più che bravura ungherese fu stoltaggine altrui. In un epoca pre o paleo-televisiva, non c’erano molte informazioni che girassero sugli assetti tattici delle squadre, c’era una sorta di cavalleria per cui il 9 era il centravanti, il 5 lo stopper, l’8 e il 10 gli interni e così via. Sebes se ne fregò bellamente proponendo una squadra in cui il 9 era un centrocampista, il 5 il regista, l’8 e il 10 le due punte, per cui molti allenatori dovevano improvvisare le contromisure direttamente sul campo. E non c’era neanche una critica sportiva degna di questo nome, i giornalisti preferivano raccontare le partite usando roboanti aggettivi che analizzandole tatticamente. Il primo vero esperto di tattica fu proprio Gianni Brera, che infatti amò l’Ungheria di Puskas.

In pochi mesi sono usciti il suo libro, quello di Matteo Marani (Dallo scudetto ad Auschwitz, Aliberti editore) e L’allenatore errante (Zona editrice) di Leoncarlo Settimelli, segno di una nuova tendenza della letteratura sportiva italiana che va a mettere le mani in storie di sportivi che hanno fatto e subito la Storia. Finalmente la letteratura sportiva ha preso atto che può e deve parlare della Storia e dell’Uomo, al di là di biografie rubacchiate ai salotti glamour dei privè?

Me lo auguro, ma potrebbe anche trattarsi di un caso, di una felice coincidenza cosmica, proprio come quella che fece sbocciare tutti quei talenti in Ungheria nell’ultimo dopoguerra. In fondo i libri di letteratura sportiva di un certo tipo non sono mai mancati, cito per tutti “La farfalla granata” di Nando Dalla Chiesa. Bisogna saperli scegliere, bisogna saperli cercare. Esattamente come nella letteratura non sportiva esce una marea di paccottiglia, ma escono anche libri buoni e buonissimi, che magari restano semisconosciuti. Io però non demonizzerei troppo certi libri, per un meccanismo simile a quello dei “cinepanettoni”, i film di Natale con Boldi e De Sica che incassano botti di milioni. La qualità è quella che è, ma è grazie ai loro incassi che i produttori possono permettersi di investire soldi in pellicole di qualità inevitabilmente destinate a rendere meno e a non rendere affatto. Insomma, se un editore per pubblicare un libro di qualità ne pubblica anche 3, o 5 o 10, senza qualità a me va benissimo così. La letteratura sportiva è comunque una nicchia della letteratura, che a sua volta è una nicchia ormai. Un certo pubblico ci sarà sempre e confido anche che gli eccessi di calcio in tv e nei salotti glamour dei privè, per usare la sua espressione, lo sappiano aumentare. Ma è inevitabile che non sarà mai un pubblico di massa. Quindi ben vengano tutti i libri che parlano di sport, anche in modo corrivo.

Proverà ancora a scrivere un libro come questo in soli due mesi?

Non so neppure se scriverò un altro libro in vita mia. Devo prima avere un’idea che mi convinca, e anche questa sull’Ungheria non mi è certo venuta in poco tempo, anche se poi è arrivata all’improvviso. A quel punto vedrò se troverò un editore disposto a pubblicarmela e che tempi concorderemo. Certo, se sarà possibile eviterò di ripetere una follia come questa, che era dovuta anzitutto al tentativo di non arrivare troppo in ritardo dopo la fine delle celebrazioni del 1956.

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