L’uomo che ha “inventato” la Supercoppa italiana (anche se lui dice di no). Il ricordo di Enzo D’Orsi.

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Dopo aver scoperto che l’idea della Supercoppa italiana, trofeo che sta per disputarsi quest’anno in Arabia Saudita fra Juventus e Milan, era venuta a Enzo D’Orsi, grande giornalista del Corriere dello Sport e autore del bellissimo libro Gli undici giorni del Trap, gli ho chiesto un ricordo di quell’esatto momento in cui la competizione è stata immaginata e poi è nata. Ho fatto solo questa domanda, poi ho lasciato che la sua penna iniziasse il viaggio senza più disturbare. Ecco le sue parole.

La Supercoppa italiana è nata in modo casuale. Non è stata un’invenzione, semmai un’idea mutuata dal calcio inglese, il migliore di tutti. La sfida tra la squadra vincitrice del campionato e la squadra vincitrice della coppa nazionale, la partita ideale per inaugurare ogni stagione, una sorta di verifica dopo i verdetti emessi pochi mesi prima, sempre a Wembley, sempre nello stadio della nazionale. Il primo trofeo, dal valore simbolico molto forte. È chiaro che giocare questa partita a gennaio non ha senso, toglie molto al significato del confronto, diventa una passerella internazionale, ben pagata, ma niente di più.

Era una sera d’inverno. Paolo Mantovani, il miglior presidente che io abbia conosciuto, convocò a Milano un gruppo di giornalisti dalle spiccate simpatie sampdoriane. A me piaceva la coerenza di un dirigente che combatteva seriamente la violenza e la maleducazione, non alzava mai la voce, non voleva in squadra gente rissosa e allo stadio pretendeva dai tifosi il massimo rispetto verso gli avversari. Una rarità anche allora. Allo stesso tavolo, c’erano giornalisti innamorati pazzi della Samp, che già sognavano lo scudetto: tra questi, un gigante tra gli inviati in Medio Oriente, Antonio Ferrari del Corriere della sera, due grandi esperti di mercato, Franco Rossi e Franco Esposito, ed altri. Un gruppo ristretto, al quale Mantovani faceva qualche confidenza e al quale chiedeva indiscrezioni sul futuro di giocatori e tecnici. Una piccola lobby che cercava di dare spazio sui giornali – nei secoli ancorati soprattutto a Juve, Milan e Inter – alla Sampdoria in cerca di gloria e visibilità tra le grandi.

Il ristorante non aveva grandi pretese, Mantovani evitava i posti lussuosi, almeno in Italia. Quelli se li concedeva in Costa Azzurra e in Arizona, dove andava spesso. Lì passava inosservato. Gli piaceva la cucina semplice, sincera, talvolta rurale, la cucina italiana. Il Paese non era stato sequestrato dagli chef, ormai popolari quanto i campioni del football, la “bravura nell’impiattamento” era lontana dal dilagare, le trasmissioni dedicate al cibo si affacciavano timidamente dal teleschermo.

Ad un certo punto, chiesi a Mantovani: “Presidente, perché non si fa anche in Italia la Supercoppa, come avviene da decenni in Inghilterra e ora anche altrove?” Mi rispose: “È una buona proposta, la porterò subito in Lega”. Così fu: il consiglio della Lega di A e B, il cui presidente era Luciano Nizzola, futuro presidente della federazione ed ex vice presidente del Torino, varò in quattro e quattr’otto la competizione. La prima edizione fu giocata tra il Milan e la Sampdoria, finì 3-1: Sacchi era uno specialista nelle finali, le preparava con cura maniacale, al contrario di Boskov, che peraltro non aveva un organico dello stesso livello, nonostante la crescita continua di Mancini e Vialli. Con il trascorrere delle stagioni, la Supercoppa italiana è diventata un obiettivo, non certo un traguardo. Mantovani, prima di morire nel 1993, la conquistò soltanto una volta, a Genova contro la Roma. 1-0, con l’autografo di Mancini ad un quarto d’ora dalla fine. E quella è rimasta l’unica Supercoppa nella bacheca blucerchiata.

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