Il sasso l’ho lanciato, adesso non posso che continuare a vedere l’acqua che si sagoma. Butto giù davvero degli appunti, la costruzione e sistematizzazione non può essere che comune. Ho parlato di stagno, ma non c’è niente di statico né di ammuffente nella letteratura sportiva in Italia oggi.
Il libro di Fabrizio Gabrielli, “Cristiano Ronaldo. Storia intima di un mito globale” però mi ha scosso, illuminando dei punti che sono andato a riprendere, rileggendo e cercando di capire cosa li tiene insieme.
Per il libro di Gabrielli ho scritto di mattone fondativo per la nuova scrittura sportiva in Italia perché ho percepito qualcosa di nuovo, che ci lega e ci distanzia da almeno tre punti cardinali che hanno sostanziato la nostra scrittura sportiva. Il primo è la potente letterarietà breriana, che ha dato il là alla costruzione di mitologie sportive partendo sempre e con fede indistruttibile dalle radici, quali esse siano, familiari, culturali, di tradizione, spingendoci verso le razziali o para-razziali in epigoni poco attenti e poco talentuosi. Questo ha portato ad uno scavo in profondità nella biografia del personaggio che mira sempre più al dettaglio anche minimo, ma portatore di grandi orizzonti, mentre nella descrizione dell’evento sportivo Brera ci ha saputo suggerire la sineddoche, cogliendo la meraviglia del tutto anche nel piccolo gesto.
L’altro punto di riferimento è un determinato tipo di giornalismo che ha Giovanni Arpino come esempio massimo, che invece analizza uomini ed eventi come su un grande palcoscenico, sul quale tutto si mescola e vibra anche al di là del risultato sportivo in sé. Arpino con “Azzurro Tenebra” ha costruito un fantasmagorico e allo stesso tempo oscuro teatro delle metafore, donandoci il senso del personaggio al di là dell’essere atleta.
Infine abbiamo il giornalismo di Ghirelli, Palumbo e Caminiti, in alcuni tratti simbolista per la ricercatezza della parola e dell’effetto, che mette a nudo i personaggi per poi rivestirli d’oro o di fango a seconda dei casi.
Per tanti anni chi scriveva di sport ha sempre viaggiato fra queste tre enormi isole, in un mare noto e piacevolmente amico, scrivendo soprattutto aneddotica, biografie, reportage di eventi sportivi che hanno fatto la nostra storia soprattutto calcistica.
Molti hanno scelto un solo stile a cui riferirsi, altri hanno saputo sviluppare una sintesi, in questo senso il meglio che c’è oggi è la produzione di Marco Pastonesi, con una nota di merito per “L’Uragano Nero”. Tenendo sempre segnalate sulla mappa le tre isole, oggi tante piccole barche cercano di andare oltre queste rotte definite, partendo da esse per espandere lo spazio e lo stile della narrazione. E fra quelli che ci sono riusciti meglio, sottolineo quattro elementi che si ritrovano con costanza nelle loro opere.
Il primo elemento riguarda da quale punto d’osservazione si inquadra il fatto sportivo. Uno dei miei crucci di cui parlo ormai da anni è quello di pensare il fatto sportivo come qualcosa di più grande, che tiene dentro non solo il talento fisico, cerebrale e atletico di chi lo compie (a cui aggiungere almeno il “talento neuronale” di cui ha parlato Modeo riguardo Messi sul CorSera), ma anche delle tracce culturali di più ampio respiro. Nei libri proprio di Modeo, Iervolino e Gabrielli (da citare anche un prodromo che poi ha influenzato positivamente l’anima de L’Ultimo Uomo, ovvero “Cantona. Come è diventato leggenda” di Daniele Manusia) questa apertura è chiara ed evidente. Nessun gesto è solo un’espressione atletica individuale, per due ordini di motivi: prima di tutto perché viene sempre influenzato da un contesto storico e culturale che non lo innesca, in quanto resta il singolo a pensarlo e metterlo in atto, ma che lo colora di un mood proprio e unico. La rovesciata di Cristiano Ronaldo o la corsa di Tommie Smith nascono anche da una visione “culturale” che i protagonisti hanno del loro sport all’interno del contesto sociale di riferimento, con gli attori stessi che si rendono oltretutto conto dell’impatto che sulla cultura quel gesto atletico può avere. Il secondo motivo riguarda proprio l’effetto. Il gesto sportivo, nato da una temperie culturale che è propria di un luogo e di un tempo, ha effetti profondi su luoghi sempre più enormi (la globalità è l’oggi) e sul tempo in cui il gesto stesso viene vissuto e diffuso attraverso i media disponibili al momento. Per fare ancora l’esempio di cui sopra, la rovesciata di Cristiano Ronaldo viene da una cultura (che è genius loci e temporis) e fa cultura con i media che transustanziano il gesto, inconizzandolo e diffondendolo ovunque.
Questo doppio binario culturale non è più un leggero sentore nella descrizione atletica di un fatto sportivo, ma ne è connaturato all’analisi e gli autori citati ne mettono in evidenza la grande forza d’impatto.
Il secondo punto sempre più importante nella scrittura sportiva contemporanea riesce a connetterci alla scrittura sportiva di matrice statunitense che ne ha da sempre fatto un fulcro narrativo. Posso sintetizzarlo con la frase: “Il corollario è centrale”. Il modo migliore per capire questo punto è leggere “La partita” di Piero Trellini. Mentre la letteratura sportiva almeno fino a 10 anni fa si concentrava con forza sul fatto sportivo e sull’uomo che lo compiva, oggi tanti libri, di cui “La Partita” è l’esempio migliore, ricamano intorno al fatto stesso un universo di cause ed effetti non tanto per decoro giornalistico, ma come vero cuore narrativo dell’opera, in quanto è tutto quello che ha girato e gira intorno al fatto sportivo a fare la storia che continua. Un esempio parzialmente diverso ma che rientra in questo secondo punto è “Duellanti” di Paolo Condò. Rispetto a Trellini non è il frutto di un minuzioso lavoro di ricerca, ma un dipinto impressionista di un caotico dietro le quinte, spiegabile solo da chi c’era. Ma anche in questo caso, Condò sa far risaltare il corollario, perché è lì, nel non pubblicamente espresso, che si racchiude il senso e il succo dell’opera e della storia.
Come tanta letteratura sportiva americana insegna, c’è sempre un prima ma anche e, per anni lo abbiamo dimenticato, un durante e un dopo che bisogna considerare rispetto al semplice calcio ad un pallone o al lancio di un attrezzo.
Il terzo punto riguarda lo stile. Come ho scritto all’inizio, per anni i nostri punti di riferimento anche stilistici sono stati principalmente la letterarietà di Brera da una parte e il giornalismo “metaforico” di Arpino dall’altra. Poi leggi un libro come “Il Barça” di Modeo e capisci che tutto è diverso. Da questo modello massimo, insieme all’“Alieno Mourinho” dello stesso autore, entrano nello stile della scrittura ambiti disciplinari e per forza di cose letterari che ne cambiano la grana, non solo l’immagine. Modeo parla dei suoi soggetti di analisi allargando il campo alle neuroscienze e all’antropologia, così come Gabrielli con il suo Cristiano Ronaldo fa spesso sponda con la sociologia dei consumi e gli studi sul nuovo paesaggio mediale. Almeno altri due esempi da fare sono “La versione di Gipo” di Alberto Facchinetti, in cui è la storia della cultura del territorio a farsi sentire con forza, così come lo “Jascin” di Curletto è anche un compendio di storia sociale russa. Non è una multidisciplinarità che si ferma all’analisi, che illumina il soggetto con fari altri rispetto al consueto occhio di bue giornalistico, ma invade con chiarezza lo stile, arricchendolo e facendolo allontanare dal giornalismo letterario a cui ci siamo sempre attaccati.
Quella dimensione non viene persa ma è estesa con viaggi continui verso altre dimensioni dello stile. Da citare anche il Pippo Russo di “M. l’orgia del potere. Controstoria di Jorge Mendes, il padrone del calcio globale”, altro libro cardine di una multidisciplinarità stilistica e di contenuto.
Per il quarto punto sto con Musil, che nel suo saggio “La conoscenza del poeta”, si riferisce alle teorie espresse da Oswald Spengler ne “Il Tramonto dell’Occidente”. In particolare penso all’andamento non-razioide del pensiero contemporaneo, che apre uno scenario interessante rispetto all’argomento di cui parliamo. Prospettiva che viene anche dal pensiero debole, è l’abbandono della sponda felice della fiducia incondizionata al concetto e alla logica causale. I fatti descritti per un personaggio o un fatto sportivo non ne definiscono un percorso lineare e preventivabile. Stefan Zweig, grande scrittore di biografie, si è sempre chiesto: “Sì, ma quale vita è da raccontare?”. Tutto si mescola sempre, anche nella traiettoria che sembra più chiara.
Le volute di zucchero di Federico Buffa sono l’espressione eccellente di questo andamento non razioide del racconto, capace di richiamare addirittura l’aedo multiplo di omerica memoria e, grazie al talento dell’uno, di racchiudersi in una singola voce, che gioca con le continue sponde delle sue conoscenze ed esperienze vive. Così come è da citare il racconto sudamericano di “Locos por el fútbol” di Carlo Pizzigoni, che proprio grazie al suo andamento sinusoidale sa creare armonie nuove da fatti noti. Devo citare anche due libri di boxe, “Muhammad Ali. Storia di una rivoluzione” di Andrea Bacci e “Jesse e Joe. Gli atleti che sconfissero Adolf Hitler” di Francesco Gallo, bravi nel riportare questa apertura di stile giocando a giuste dosi con l’epica che caratterizza quello sport in particolare.
Questo approccio impatta sulla composizione narrativa, che è per forza di cose multipla, modulare e frammentata, in cui ogni singolo elemento è gravido di effetti sulla visione del personaggio-fatto e sulle sue vicende.