A me la biografia di Marco van Basten, “Fragile”, è piaciuta molto.
Così scriverebbe Marco van Basten di un libro che gli piace, senza troppe mollezze critiche. Ed è proprio questo che c’è in “Fragile” e che piace anche a me.
È un libro asciutto, che arriva al punto, a volte rigido e da quel che ho capito rispecchia fedelmente la vita e il carattere di chi ne è protagonista. Forse la parte migliore che una biografia alla fine deve darti: un goccio di verità.
C’è un desiderio, c’è una passione, c’è un progetto, ci sono una serie di cose da fare per soddisfare quella passione e realizzare quel progetto. Si fanno, si ha successo. E poi… la caviglia.
Sembra tutto semplice, tutto facilmente incasellabile. Forse Van Basten si dimentica di dire che è Marco Van Basten, con un talento e un’armonia fisica fuori dal comune, ma il fatto che si innamori del pallone da bambino e che con il padre costruisca un percorso per diventare campione non deve farcelo sentire distante, magari solo diverso da noi che non riusciamo a pensare e fare con la stessa qualità. Mi fa impazzire quando quasi glissa riguardo alle vittorie, ne è orgoglioso, lo identificano come uomo oltre che come atleta, ma le mette lì, a punteggiare e non marchiare la sua esistenza. Marco van Basten è tanto altro rispetto alle vittorie e all’atleta pubblico e non ha mai potuto dimostrarlo.
Prima di tutto è fragile da tanti punti di vista. La sua vita è stata fragile, perché gli affetti sono sempre stati distanti, con un padre completamente immerso nel suo successo e una madre, sola in una prima parte e colpita dalla malattia in una seconda fase. La sua carriera è stata fragile, perché sempre in bilico fra successi enormi e cadute rovinose, dovute non solo a lui, perché stiamo parlando di un gioco di squadra, ma che a lui spesso tutti imputavano. E poi è stato fragile il suo corpo, il mezzo per soddisfare la passione e realizzare il progetto di cui si scriveva.
E parlando di questa fragilità, emerge lei, la vera coprotagonista del libro, la parte che lo stesso Van Basten mette al centro del tutto, perché per colpa sua e intorno a lei buona parte dell’essere Marco van Basten privato e pubblico è ruotato: la caviglia destra.
Questo suo insistere su questa parte del corpo, che ha causato e portato alla luce la sua fragilità è la parte migliore del libro. E mi ha fatto anche pensare. Guardiamo ai calciatori, parliamo e scriviamo delle loro parti del corpo come fossero parti di un’automobile, né più né meno. Come le auto e i parafanghi, i calciatori scuotono in noi un desiderio di possesso e un moto d’orgoglio per uno status raggiunto che ci fa stare meglio o peggio.
Ma le ginocchia, le caviglie, i tendini, i legamenti, i polpacci, le anche, i metacarpi, le falangi sono umane troppo umane, non passepartout per una nostra presunta felicità.
Si parla e si scrive troppo poco della carne con cui sono fatti i calciatori. Le loro parti del corpo sembrano solo un impedimento e non l’acceleratore verso le vittorie e i traguardi. Quando si parla di parti del corpo di un calciatore c’è sempre un velo di peccato che emerge, una distanza. Come se non avessero le nostre carni, ma delle ossa e dei muscoli a nostra disposizione, di cui dobbiamo e possiamo chiedere conto in ogni momento. Il corpo del calciatore bene che vada può diventare un oggetto di discussione e non il motore fisiologico di una bellezza atletica.
Marco van Basten ribalta questa visione e mette al centro lei, la caviglia che lo ha allontanato dal calcio ma soprattutto gli procurava dolori intensi, che lo hanno fatto vivere male la sua quotidianità, i rapporti familiari e quelli di amicizia. Ci ha detto, pensate al fatto che per i miei dolori non sorridevo a mia figlia e non alla Coppa dei Campioni che non abbiamo vinto. Questa è, alla fine dei conti, la verità che resta.