“LE CANAGLIE” – INTERVISTA AD ANGELO CAROTENUTO

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1 – La prima cosa che emerge fin da subito nella lettura de “Le canaglie” è la lingua che scegli. È una lingua che richiama Gadda, il Pasolini di “Una vita violenta”, Brera. Perché hai scelto di unire alto e basso in un pastiche che ammalia e magari stranisce qualche lettore?

Non è stato per vezzo, né per una posa. Mano mano che lavoravo al romanzo, mi sono reso conto che stavo raccontando una serie di perdite, sia nelle vicende dei personaggi, reali o di fantasia che fossero, sia di perdite sociali, culturali, di costume. A quel punto mi è parso coerente provare a testimoniare come Roma abbia perso un bene prezioso, la sua lingua, nel registro più alto, dico. Il dialetto di Roma è diventato una sorta di macchietta anche per la responsabilità di alcuni sottoprodotti del cinema e della televisione. Chi parla in romanesco deve sempre essere un cialtrone, inaffidabile, volgarotto. Si è imposta una parodia, un romanoide, che ha spazzato via il ricordo di una lingua su cui negli anni Settanta potevano ragionare e sperimentare intellettuali come Pasolini e Gadda, due non romani. Ho provato a recuperare certe sonorità del lessico, certi modi di dire caduti in disuso, costruendo una lingua che non è meno artificiale del chewing-gum che ci viene proposto ripetutamente, ma che vuole rendere omaggio a un passato perduto.

2 – Maestrelli e Chinaglia emergono come due figure all’opposto. Un mediatore di conflitti il primo, un innesco continuo di energie il secondo. Come hanno fatto a intendersi così profondamente tanto da dirsi quasi padre e quasi figlio?

Chinaglia aveva bisogno di una figura paterna dopo un’infanzia complicata. Non aveva mai superato fino in fondo il trauma dell’abbandono: un padre che lo lascia alla nonna e parte per il Galles portando con sé l’altra figlia. Dando l’idea a un bambino di aver fatto una scelta. In Maestrelli trovò l’uomo che incarnava in modo perfetto l’esigenza inespressa che aveva dentro. Quanto a Maestrelli, fece di Chinaglia una specie di quinto figlio adottivo, ma non erano meno intensi i rapporti con altri calciatori. Penso a Re Cecconi, che i suoi due figli gemelli chiamavano il “Tato”, perché avevano trascorso molte ore con lui già nell’anno di Foggia e poi di nuovo al suo arrivo a Roma. Li accompagnava al cinema, gli comprava il gelato e i pop-corn. Credo che per Maestrelli fosse la conseguenza della sua maniera di intendere il lavoro in modo totalizzante.

3 – A pag. 111 si dice “Pe’ fa (scrivere sul giornale) sport dovresti sapé de medicina, de legge, d’economia, politica estera”. “Non ti mando allo sport, nun te lusingà”. Pensi che questa consapevolezza che lo sport sia un universo composito e ricco di flussi sia ormai scontato presso i grandi hub culutrali italiani (redazioni giornali, redazione televisioni, Università, case editrici)?

Non lo so. Forse non del tutto. Lo sport è ancora considerato il reparto giocattoli del giornale, per la sua natura molto pop, molto trasversale, per la sua meravigliosa capacità di coinvolgere tutti indipendentemente dal ceto sociale e dalle appartenenze identitarie. Il risvolto è che ciascuno sente di poterne parlare anche senza avere acquisito una competenza tecnica, in nome – che so – del proprio tifo o perché va a correre la mattina. Voglio dire che nelle riunioni mattutine è più raro trovare qualcuno che intervenga per dire la sua nelle vicende dell’economia, mentre chi ha un pensiero disinvolto sullo sport lo trovi quasi sempre.

4 – Protagonista del libro è anche Roma, che nella tua descrizione definirei marcia e meravigliosa. Avevi in testa anche la Roma attuale?

Ho cercato di non tenerne conto. Stavo raccontando una Roma che non ho visto e non ho vissuto. In certi casi sono andato a vedere come sono diventati i luoghi del romanzo, in altri ho perfino evitato per non lasciarmi fuorviare. Ho fatto un lavoro di ricerca negli archivi, nelle cronache cittadine leggendo tutto quello che c’era sulla squadra e quasi tutto sugli eventi accaduti in città nel frattempo. Ho cercato nei romanzi dell’epoca le descrizioni di Roma, in generale mi interessava la percezione che la città aveva di sé stessa in quegli anni furibondi e come si presentava, cosa le piaceva dire di sé.

5 – È anche un libro sulla furiosa giovinezza. Non è un dettaglio. Chi scrive di sport per forza di cose deve sguazzare in questa condizione esistenziale. Secondo te attraverso quale filtro lo scrittore sportivo deve far emergere questa condizione?

L’umanità. Non c’è un’altra via. Con la compassione per i battuti e con l’attenzione ai modi con cui si impongono i vincitori. Se accetti l’idea che il successo sia il bene supremo dell’attività sportiva, anche quella d’élite, anche quella professionistica, stai implicitamente accettando il principio secondo cui ogni mezzo è lecito per raggiungerlo. Non sto facendo l’elogio dei grembiulini bianchi. Esistono dei meravigliosi irregolari che vale la pena raccontare nei loro toni grigi, nelle loro debolezze, in certe fragilità autodistruttive.

6 – Quella Lazio vive profondamente i suoi tempi. Ma in qualche modo anticipa degli elementi che poi diventeranno standard nel rapporto tra calcio e società in Italia?

Le Canaglie si ferma un attimo prima che tutto cambi. É come una fotografia scattata nell’ultimo momento utile. Nel calcio sta per arrivare il divismo, con la riapertura delle frontiere e il ritorno nel 1980 degli assi stranieri. Nella televisione stanno per arrivare le emittenti commerciali. Nella politica gli anni di piombo avrebbero conosciuto il punto più drammatico con il rapimento e poi l’omicidio di Aldo Moro e la strage degli uomini della sua scorta. Quella Lazio è la squadra che rappresenta meglio l’ultima generazione di calciatori calati nelle società, ragazzi che potevi incontrare al cinema il sabato sera e dei quali potevi sapere per quale partito politico avrebbero votato alle elezioni. Persone comuni, che sposavano le ragazzine conosciute al paese o all’università, vivevano in appartamenti uguali a quelli dei nostri nonni. Il calciatore degli anni ’70 è l’ultimo che devi soprattutto immaginare, attraverso la mediazione della radio o il racconto dei pochi che andavano allo stadio, pochi rispetto alla grande platea televisiva che renderà il calcio davvero di tutti. Una democratizzazione che ha per conseguenza una presa di distanza dei protagonisti dalla folla, fino all’isolamento assoluto in cui vivono oggi.

7 – Io credo che in Italia ci sia una nuova Scrittura Sportiva. Pensi che i giovani autori stiano davvero sviluppando un nuovo modello di scrivere di sport?

Ci sono molte cose interessanti e un panorama editoriale certamente vivo. In Italia è mancata a lungo una narrativa sportiva, credo come conseguenza dell’uso che il regime fascista aveva fatto dello sport. Uno strumento di propaganda. Quando la guerra finisce, il mondo delle lettere e le sinistre prendono le distanze dalla materia. Sono rari gli scrittori italiani che nei loro romanzi si occupano di sport. Casomai preferiscono farsi reclutare dai giornali, che sono ancora in quegli anni dei luoghi di sperimentazione e fanno da supplenti: pensa a tutta la produzione e al coinvolgimento di grandi firme della letteratura italiana sul ciclismo. O anche ricorda che cosa fu il Mundial 1982, dove potevi leggere contemporaneamente Mario Soldati, Manlio Cancogni, Giovanni Arpino, Gianni Brera, e giornalisti come Gianni Mura, Mario Sconcerti, un giovane Darwin Pastorin. Un Mundial al quale si sarebbe poi dedicato con un saggio il dantista Vittorio Sermonti. I piani adesso sono non per caso ribaltati. Con la nuova attenzione dell’editoria per i titoli di sport, non ci sono più premi Strega che vanno come inviati ai Mondiali.