“STEFFI GRAF. PASSIONE E PERFEZIONE”. INTERVISTA A ELENA MARINELLI

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Fai iniziare il libro mostrandoci Steffi Graf in mezzo alle due partite contro Tracy Austin, passando dal 6-4, 6-0 per l’americana del 1982 al 6-0, 6-0 per la tedesca del 1994. Sono 12 anni in cui Steffi vive di tutto e diventa una delle tenniste più forti e grandi della storia. Perché hai scelto proprio questa cornice tra le diverse possibili?

Il prologo è nato a metà scrittura del libro.

La mia storia su Steffi Graf inizia dall’infanzia vissuta insieme alla famiglia coltivando il desiderio di giocare a tennis: ho iniziato a scrivere con l’immagine dei lampadari del soggiorno che fracassano a terra.

Circa a metà scrittura, però, ho pensato che quei due eventi della sua carriera potessero essere simbolici, non tanto a livello tennistico o per questioni di rivalità – con Tracy Austin non c’è mai stata una vera rivalità – ma perché aprivano e chiudevano un discorso e potevano fare da premessa: dimostravano che Steffi Graf fosse un materiale grezzo e quanto lavoro e attitudine lei avesse messo nel tennis per arrivare dove è arrivata.

Quei due eventi tennistici sono stati utili per mettere in chiaro che il libro non avrebbe parlato solo di una sequenza di eventi fortunati. Tracy Austin, quindi, è la traccia in controluce di chi l’ha sottovalutata, di chi non l’ha mai capita – anche a livello umano – di chi l’ha sfidata fuori dal campo e con un mezzo per Steffi complicato da gestire: le parole.


Nel tennis vediamo tanta genitorialità esibita per fortuna molto diversa. Perché i padri (e spesso anche le madri) sono così presenti secondo te? Di sport individuali ce ne sono centinaia eppure il tennis è molto spesso visto attraverso gli occhi di chi sta intorno all’atleta, che lo influenza (o almeno così sembra per noi esterni) come nessun altro sport individuale. Hai il tuo perché?

Il tennis è uno sport che si inizia a livello agonistico da preadolescenti e in solitudine. Praticamente, ciò significa non poter andare in giro da soli, che la famiglia e i genitori spesso sono presenti perché c’è bisogno di qualcuno che letteralmente faccia da padre e da madre agli atleti. Il tennis è uno sport individuale solitario: la prima cosa ha a che fare con il gioco, la seconda con l’emotività e ciascuno impara a gestirla come può.

Molti oggi raccontano che lo staff (con genitori o meno inclusi) è una famiglia: è retorico ma ha un fondo di verità molto precisa. «Famiglia» è inteso come nucleo di condivisione, di discussione, di litigio, di prossimità. Per alcuni è fondamentale non stare da soli per giocare al meglio, sono coloro che si affidano a qualcuno e in diversi casi questo qualcuno è un genitore.

Mentre scrivevo di Steffi Graf, ho spesso incontrato una sua affermazione che con il mio occhio di oggi mi ha colpito: «Ho bisogno della mia famiglia con me» e Graf lo ripeteva sia quando c’era il padre onnipresente, sia quando a lui si è sostituita la madre e lei era ormai cresciuta. Credo fosse un sincero compromesso con la sua vita di atleta, un’abitudine efficace, quindi irrinunciabile.


Faccio i complimenti al tuo stile di racconto. Sembra una partita di tennis, è svolto in frammenti e soluzioni improvvise e non scorre mai piano e spesso piatto come altre cose lette. È una tua scelta per riprodurre i ritmi sincopati e scheggiati della tua materia, il tennis, o è un mio film?

Ti ringrazio molto.

Ci sono delle costruzioni volute nel libro, espedienti narrativi e stilistici che ho studiato per rendere certi movimenti del tennis. Uno su tutti: la descrizione dei tie-break, in cui non sai subito chi sta facendo punto, ma dovresti farti trasportare da quel dialogo immaginario e alla fine scoprire chi ha detto cosa, chi ha vinto. Un game che finisce al tie-break è una partita nella partita: puoi aver giocato bene sino a quel momento ma è probabile che tu abbia sbagliato due punti importanti e l’altro è stato molto più bravo di quanto sembri, perché ha saputo approfittarne. Ecco: nel tie-break non conta niente, si azzera il match fino a lì, chiunque può vincere.


Lo scrivi nel libro. Ogni volta che Graf ha vinto un trofeo, sembra sempre che abbia vinto “solo” la semifinale. Secondo te è del campione epocale il non appagamento o è una sua caratteristica specifica?

Del campione duraturo, più che epocale. Se si è disposti quotidianamente ad allenarsi e giocare per ore, giocare e girare per tutto il mondo ogni anno perdendosi la vita che nel frattempo trascorre, significa che si ha una volontà e una passione oggettivamente superiori; l’asticella del confronto, però, è una questione soggettiva: ci si può sentire appagati solo con certi risultati straordinari o, al contrario, ottenuto il minimo possibile, ma alla base c’è sempre un ritmo individuale eccezionale, diverso dagli altri.

Ciò che fa la differenza secondo me è la risposta alla domanda: «Per quanto tempo ne varrà la pena?»

Steffi Graf, ad esempio, ha iniziato a chiedersi questo intorno al 1994-1995 (o almeno questo è ciò che penso) quando la sua carriera ha avuto un secondo grande picco, ma si è risposta 4 anni dopo quando ha preso in mano il trofeo del Roland Garros nel 1999: lì, in quel momento, non aveva vinto una semifinale, ma la finale con la “f” maiuscola. Non c’è paragone rispetto alle altre volte, è secondo me palese. Abbraccia quel trofeo come fosse il primo, con una gioia incondizionata e purissima. Credo che dopo qualche giorno quella ricerca spasmodica di riprovarlo si fosse affievolita.


Per te, che tipo di genialità ha sprigionato Steffi Graf?

Genialità secondo me è una parola complicata, ha bisogno di premesse e definizioni per renderla terreno di ragionamento.

Steffi Graf non è stata geniale nel senso più comune dell’immaginario. Se mettiamo accanto a questa parola qualità come la creatività (mentale) o l’imprevedibilità (nel gioco), allora Steffi Graf non è stata una campionessa la maggior parte delle volte geniale. È stata un’atleta completa, fatta di determinazione e allenamento, di dedizione e cocciutaggine e non so se queste qualità siano geniali o meno, ma di sicuro potrebbero suonare noiose.

Monica Seles è stata di sicuro più brillante, ad esempio, fin da subito; Martina Navratilova è stata più divertente. Steffi Graf è un dritto potente e perfetto (forza e tecnica quindi) che è finito quasi sempre nel posto giusto al momento giusto, senza scomporsi, lasciando indietro a volte stupore altre esaltazione ed è questo ciò che ha lasciato: un’attitudine al movimento, sopra ogni altra cosa. Potrei anche dirti che la sua storia ha a che fare con la capacità di vincere, ma anche questo non è genialità. È “soltanto” capacità allenata quotidianamente. Il fascino forse sta nel raccontare quel “soltanto”.


S contro G (leggete il libro se volete capire) che scontro è stato?

Memorabile.

Gabriela Sabatini è stata la prima ad aver messo Steffi Graf in difficoltà da un punto di vista umano. Le partite tra loro due, le finali tra loro due, sono stati incontri giocati anche oltre il campo. Sono state compagne di doppio per un periodo, ma solo dopo le rispettive carriere abbiamo saputo che erano amiche e parlavano poco perché avevano un problema di lingua di comunicazione, non per altro. Sabatini ha raccontato molto del loro rapporto pregresso e si è scoperto un lato di Steffi Graf che si pensava fosse molto artificioso. G. non si è mai preoccupata di convincere gli altri che era fatta in modo diverso da ciò che immaginavano, o che era capace di sofferenza e di vicinanza umana: ce lo hanno raccontato altre persone dopo. Una di queste è stata S.


Secondo te come è stato possibile il Golden Slam del 1988? Un corto circuito, nel senso che le grandi avversarie del passato erano troppo lise e le nuove non ancora sbocciate oppure semplicemente quella stagione Graf non era battibile?

È stato possibile perché se ne è dimenticata durante le partite, ha trattato gli Slam come tornei a sé stanti. È stata saggia. Era preparata. Era compiuta a livello mentale.

Più specificatamente, è successo innanzitutto perché Steffi Graf si è allenata per essere la numero 1 per 6 anni e ha imparato molto perdendo, soprattutto a livello di testa.

In secondo luogo, per una evoluzione tecnica: dopo il primo Slam del 1987 (Roland Garros), si è allenata in modo un po’ diverso per la stagione 1988, affinando ancora di più le basi principali del suo gioco, come l’atletismo e la mobilità.

In terzo luogo, è successa una cosa inevitabile: Steffi Graf è maturata fisicamente. Stiamo parlando di una adolescente che nel giro di una stagione non lo è stata più.

Infine, ha gestito l’incognita dell’Australian Open per prima, per una mera questione di calendario: lo Slam australiano è il primo dell’anno e nel 1988 cambiava superficie, da erba a cemento.


Come ha risposto alla domanda: “E ora?” Steffi Graf dopo il Golden Slam del 1988?

Benino, direi.

Si è dovuta confrontare subito con le altre. È passata dall’inseguire all’essere inseguita, dall’essere la migliore possibile ad essere sfidata continuamente. Ha trovato una risposta sul campo, come al solito, negli anni immediatamente successivi in cui si è dovuta aggiustare alle tenniste emergenti, si è plasmata ancora un poco nel gioco, soprattutto. C’è stata sempre qualcuna da battere e quando quella persona è diventata lei, ha iniziato sul serio a confrontarsi con se stessa. Da questo il mio «benino»: non era pronta, non ancora, e ha dovuto imparare giocando.


Da giovanissima lei stessa, ha sempre dovuto far fronte all’ancora più giovane con Seles prima e Hingis alla fine. Questa cosa l’ha cambiata, l’ha sempre spinta verso il futuro oppure ha finito per fargli perdere certezze?

Credo siano stati due futuri diversi che le si sono parati davanti.

Quello di Monica Seles era un domani molto concreto e roboante. La serba è stata la prima grande giovane predestinata che è piombata nella carriera di Steffi Graf, non tanto tempo dopo il 1988, ma è stato un futuro interrotto, monco, per ciò che è successo a Monica Seles nel 1993. In quattro anni è nato e finito tutto, in modo brutale e senza risposte.

Il futuro di Martina Hingis invece è stato più rilassato. Lo dimentichiamo spesso perché lo scontro durante il Roland Garros nel 1999 contro la svizzera per Steffi Graf è stato epocale, ma nel 1999 Graf ha perso in finale contro Serena Williams a Indian Wells e contro Lindsay Devenport a Wimbledon. Sono state due partite diverse, ma in entrambi i tornei è successa la medesima cosa: Graf ha giocato in modo superlativo nei turni precedenti alla finale, a trent’anni mostrava la determinazione dei suoi venti, ma nelle partite decisive la sua celebre capacità di annientamento delle avversarie sul campo e la sua qualità nel mantenere la concentrazione sono venute meno per lunghi tratti. Forse in quei momenti si è accorta prima di tutti gli altri che il futuro era già un presente molto concreto.