Se ci pensi l’idea della continua e perenne modulazione e rimodulazione dei principi in fondo non è del calcio, è contro la sua storia. Una volta sovvertiti i vecchi, tutti hanno cercato la regolamentazione dei nuovi. Perfino Sacchi cercava affannosamente e speranzosamente dogmi. Guardiola è “rivoluzione infinita”, come titoli perfettamente. Perché è il primo in questa storia a voler andare sempre un passo più in là?
È un aspetto che tratto nel primo capitolo. Anzi, nelle prime righe del libro: Guardiola nasce come giovane calciatore e poi come professionista in un Barcellona che sta cambiando il modo di giocare a calcio, grazie alle teorie e alle pratiche di Cruijff; vive la seconda fase della sua carriera al Barça con Van Gaal, un altro grande innovatore. Il fatto che le sue vittorie siano arrivate proprio in quegli anni è come se l’avesse convinto, forgiato, rispetto alla necessità del cambiamento. Rispetto al fatto che il risultato sul campo sia un evento da costruire lavorando su qualcosa di innovativo, mai visto prima, che possa sorprendere l’avversario. Poi sarà subentrata certamente anche un po’ di vanità personale, da questo punto di vista, ma secondo me questo suo atteggiamento nasce da certe origini, da un avvio di carriera che nel libro definisco contro-intuitivo, cioè dal fatto che lui abbia iniziato a vincere subito lavorando con allenatori che, proprio come approccio, volevano rivoluzionare il calcio.
Per età, maledetta e benedetta età, ho seguito con cognizione di causa la carriera da calciatore di Guardiola. Ripensandoci adesso, mi sembra che abbia giocato quasi sempre per imparare ad allenare. Secondo te è stato così?
È una bellissima suggestione. E calza perfettamente con la storia di Pep, con i racconti di alcuni allenatori che, nel corso della sua carriera in campo, l’hanno definito ossessionato per il calcio. Questa vocazione alla conoscenza approfondita della tattica e la sua leadership naturale l’hanno trascinato di peso alla carriera da allenatore, come se fosse un destino ineluttabile. Io credo che lui ne abbia preso coscienza solo nell’ultima parte della sua vita da calciatore, quando si è trasferito in Italia e poi in Qatar e in Messico. In virtù di tutto questo, mi sento di dire che Guardiola ha giocato per diventare allenatore senza saperlo, dopo l’ha fatto in maniera mirata. E direi che è andata piuttosto bene.
Con il Barcellona fa una cosa profondamente innovativa in quel panorama calcistico (fine anni zero), tanto innovativa che fa il giro e diventa quasi conservazione. Nel calcio ormai diventato liquidissimo e globalizzato anche nelle idee, cerca di dare a una squadra di club un’identità che la leghi al territorio e alla sua storia. Com’è riuscito secondo te a pensare in maniera così laterale in quel momento storico?
Anche questa scelta è legata in maniera indissolubile al suo vissuto, alla sua formazione. E alle sue idee. Guardiola sente e quindi dice di essere profondamente catalano e il fatto che l’offerta per allenare il Barça sia arrivata in un certo momento storico – quando aveva preso a rinfocolarsi la discussione politica e pubblica sull’indipendenza dalla Spagna – e storico-calcistico, in cui il Barcellona si era riscoperto grande con Rijkaard e Ronaldinho ma stava anche accogliendo una nidiata irripetibile di talenti allevati nella Masía, è come se gli avessero dato gli strumenti e la legittimità che gli serviva per portare avanti il suo progetto di calcio identitario. Un progetto che lui avrebbe cercato di realizzare comunque, ma che ha avuto fin da subito più forza grazie alla presenza di Xavi, Puyol, Iniesta, Messi. Ovvero i calciatori che erano cresciuti seguendo la stella di Pep.
Nei primi due anni di Barcellona manda via i tre migliori calciatori che ha in rosa (Ronaldinho, Deco ed Eto’o) per un’idea. Pensi che qualcuno oggi accetterebbe una cosa del genere?
È un’appendice alla risposta che ho appena dato: no, oggi nessun club lo accetterebbe. Magari lo accetterebbero dal Guardiola di oggi, ma non da un allenatore esordiente e che non ha ancora compiuto quarant’anni. Servirebbe, e qui mi collego alla domanda precedente, una generazione di campioni come quella di Xavi, Iniesta, Messi. Quante probabilità ci sono? Pochissime. Quasi zero. Oggi lo stesso Xavi, ovviamente in una condizione – storica, economica, tecnica – non paragonabile, ha avuto un approccio completamente diverso: si è rivolto al mercato, altro che calcio identitario.
Perché cerca calciatori poco adattabili al suo calcio (Ibrahimovic su tutti)? Vuole vincere anche sull’ego del campionissimo oppure cerca un piano B che non dipenda solo da lui?
Nessuna delle due, secondo me. L’ambizione è molto più alta, quindi irrealizzabile: Pep vuole dimostrare che è possibile piegare qualsiasi campione, quindi anche il suo ego, a un’idea di calcio. Alla sua idea. Quindi la sua non sarebbe una vittoria, piuttosto una conversione, un insegnamento. Ma, ripeto: non tutti i calciatori sono fatti per essere convertiti o incasellati in un certo gioco, per questioni tecniche ma anche caratteriali.
Una domanda un po’ strana. Come dici anche nel libro, Guardiola ha plasmato il suo gioco sul miglior giocatore al mondo in quel momento, Messi. Pensi che senza Messi avrebbe creato un Barcellona diverso, ancora più estremo?
No, credo di no. Anzi, io penso che il Barcellona del biennio 2010-2012, molto più radicale ed estremo rispetto a quello del biennio precedente, sia andato in quella direzione per adattarsi ai bisogni di Messi. Se ci fosse stato un altro grande realizzatore, Pep avrebbe costruito la squadra su di lui. Come ha fatto in seguito con Lewandowski, come ha già iniziato a fare con Haaland.
L’overthinking potrebbe venire dal fatto che ormai vuole più farsi studiare che vincere?
No, secondo me lui è davvero convinto che il suo compito – anzi: la sua missione – sia quella di inventarsi e attuare una nuova idea tattica per elevare sempre di più la sua squadra e il gioco verso nuove vette funzionali, prima ancora che estetiche. Pep è profondamente certo che questo approccio sia il migliore possibile per vincere le partite, e in realtà è così. Tranne che nelle partite decisive della Champions League, evidentemente.
A un certo punto dici una cosa interessante. Guardiola cambia così spesso anche perché ha paura degli avversari. Sono d’accordo, in alcune menti la paura sportiva fa progredire invece che regredire. Ha senso?
Ha perfettamente senso. Solo che forse il termine paura è fuorviante. O meglio: va contestualizzato. Il punto è che Guardiola ha tantissimo rispetto dei suoi avversari, fin troppo se vogliamo, e allora finisce per incartarsi nell’idea-ambizione irrealistica di voler sempre adattare la sua squadra, una squadra inevitabilmente identitaria, a un nuovo accorgimento che la renda sempre più forte. Come se volesse mischiare continuamente calcio identitario e calcio liquido. Spesso questo procedimento mentale è legato a una caratteristica dei suoi avversari di turno, e allora l’irrealizzabilità diventa utopia, finisce per confondere i suoi stessi giocatori. Da qui la risposta secca alla domanda: sì, il progresso infinito innescato da Pep nasce da questa sorta di paura. È la sua grande forza ma a volte finisce per distruggerlo dall’interno.
Da quali in particolare e cosa ha preso dagli altri sport?
Io penso che tutti gli sport, per Pep, siano una fonte di ispirazione. Dal futsal e dal basket, per esempio, ha appreso dei rudimenti tattici sugli scambi in spazi stretti; per quanto riguarda il rugby, invece, si è lasciato affascinare da un concetto che sembra opposto ma in realtà non lo è: il ribaltamento del campo per attaccare in spazi più aperti. Anche gli sport individuali hanno inciso molto nelle sue teorie, soprattutto dl punto di vista della gestione mentale degli atleti: golf e tennis richiedono enorme concentrazione, Pep lo sa e ha mutuato alcuni concetti di queste discipline per applicarli al calcio.
Il guardiolismo fa parecchio ridere. Quando lui aveva abbandonato quello che possiamo chiamare tiki-taka, Prandelli voleva per forza mettere piedi buoni (con accoppiate impossibili tipo Montolivo-Aquilani) nel centrocampo azzurro, quando lui ha iniziato a usare la ripartenza dal basso solo come una delle strategie possibili per trovare spazi offensivi liberi, noi tifosi del Napoli abbiamo dovuto ammorbarci con le ripartenze angoscianti di Gattuso. Ora che tutti tolgono il centravanti, lui cerca di inserire Haaland nel suo gioco. Qual è il modo giusto per guardare a Guardiola e non farsi ridere dietro?
La risposta per me è molto semplice: il modo giusto per guardare Pep è guardarlo davvero e in tutti i suoi aspetti, in tutte le sue evoluzioni, così da comprenderne il pensiero, in modo da non scimmiottare quelle che, in fondo, sono etichette già superate dal tempo. Non vorrei essere presuntuoso, ma ambizioso sì: spero che il mio libro possa dare un input proprio in questo senso, ovviamente non a livello tattico – non sono un tecnico, non ho competenze, sono certo che chiunque alleni a tutti i livelli sa che certi meccanismi di Guardiola non sono replicabili – ma dal punto di vista della narrazione.
Come viene fuori perfettamente dal libro, più che perfezionare, Guardiola vuole avanzare. Tirando le somme e mettendoci dentro tutto (anche il desiderio di un Presidente di club di vincere tutto), un atteggiamento del genere è giusto?
Io sono – cerco di essere – molto meno idealista e ideologizzato da ciò che appare nel libro e in queste risposte. Secondo me l’atteggiamento giusto è quello che determina risultati e/o crea valore tecnico attraverso lo sviluppo dei giocatori – in quanto individui singoli ed elementi di una squadra. Nel caso di Guardiola, direi che la risposta è sì. Per un semplice motivo: con lui il City ha vinto più titoli nazionali di quanto non avesse fatto nella sua storia, e dal 2018 arriva almeno ai quarti di finale di Champions League. Negli ultimi due anni è sempre andato più avanti. Ecco, questi sono risultati enormi, continui, costruiti con un certo metodo. Sono numeri che parlano, esattamente come quelli relativi al fatturato del City e alla valorizzazione – interna e sul mercato – dei giocatori che hanno lavorato con lui. Direi che possa bastare, visto che stiamo parlando di dati oggettivi, incontrovertibili.