C’è una famosa frase di Maldini. Disse: “Sono il giocatore più perdente della storia”, per sottolineare il fatto che durante la sua carriera ha perso partite determinanti per ricostruire a posteriori la sua carriera (finale europea e mondiale con l’Italia su tutte). Anche Federer ha perso tantissimo, perché perdere e ripetutamente in finale Slam fa più rumore. Lo narreremo in futuro anche come un grande perdente. Sei d’accordo con un’affermazione del genere o dissenti?
L’era di Federer è stata molto lunga e si può dividere in due parti: una da vincente e una da perdente, segnata nel mezzo dal cortocircuito della sconfitta contro Djokovic in semifinale agli US Open del 2011. La partita sostanzialmente finita con “The Shot”, la risposta tirata alla cieca da Nole per annullare il secondo matchpoint della partita. Quella risposta è stata un paletto nel cuore di Federer. Djokovic si è qualificato in finale, ha evitato un altro Fedal e ha dato continuità al suo anno di successi, il primo in cui ha veramente rotto la diarchia Roger-Rafa. Da quella partita Federer non è stato più lo stesso: sono iniziati i problemi sulle palle break e sui matchpoint. Ha cominciato ad alternare i suoi momenti di onnipotenza con altri di fragilità e spavento. Ha perso partite con una crudeltà da spirito autodistruttivo. È chiaro che quando usiamo la parola “perdente” nei confronti di Federer c’è una punta di provocazione, e lo facciamo sempre in termini relativi. Il fatto però che sia il tennista con più sconfitte nelle finali Slam è un dato, come il fatto che sia – fra i Big-3 – quello con più sconfitte con matchpoint a disposizione. Insomma, io sono molto d’accordo con l’idea di Federer perdente, e nel libro ho provato a concentrarmi su questa epica. Da quando ha iniziato a perdere, a Federer è rimasta la supremazia estetica, almeno per i suoi sostenitori, e questo ha contribuito a romanzarne la figura.
Qual è per te la partita in cui Federer capisce di essere Federer?
Federer era un tennista che giocava ispirato, rilassando il braccio e staccando la mente. Non è di quelli che ha dovuto costruire una “mentalità vincente” come si dice con questo gergo un po’ aziendale. Però ci sono partite che lo hanno aiutato a sbloccarsi, a giocare in modo più creativo. Per come la vedo io, la vittoria con Sampras, per quanto iconica, non è stata decisiva. Federer ha sempre saputo di poter toccare picchi del genere, ma era in una condizione psicologica favorevole in quel caso. Credo che la semifinale con Roddick a Wimbledon 2003 sia stata importante. Erano i due giovani più attesi del circuito, l’americano aveva vinto al Queen’s e veniva considerato leggermente favorito – anche per la tendenza della stampa americana di creare un hype esagerato sui propri giocatori. Federer non vinse soltanto, lo annientò. Giocò su un livello semplicemente intoccabile da Roddick. Erano i due migliori giovani del circuito, ma uno dei due faceva un altro sport. È stato un momento importante perché poi Federer vinse la finale e si liberò di un grosso peso vincendo il suo primo Slam. Da lì è andato tutto in discesa.
In futuro il suo rovescio in quale dimensione semantica verrà intinto: quella estetica, etica o pratica?
Chiaramente in quella estetica. Lo stesso Federer, quando gli chiedono perché le persone amano il suo gioco, risponde: “Il rovescio a una mano”. È stato la sua firma, mentre attorno si diceva che il rovescio a una mano era morto, un retaggio del passato ormai inservibile, Federer ha costruito i propri successi anche con quel colpo. Era una cosa controculturale. Certo, era il suo colpo peggiore, quello che lo faceva patire di più, su cui i suoi avversari insistevano. Anche senza arrivare a Nadal, Nalbandian disse: «Con Federer avevo una tattica semplice: gli giocavo sempre sul rovescio». Eppure proprio per questo è stata la sua patente di nobiltà. Come se giocare il rovescio a una mano fosse stata una rinuncia cavalleresca in nome dell’estetica del gioco – o magari per concedere un piccolo vantaggio competitivo ai suoi avversari. In questo, quindi, l’estetica si incrocia con l’etica, come quasi sempre.
La grandezza nello sport la fanno in buona parte anche gli avversari che trovi lungo il tuo cammino. Lo spieghi perfettamente nel libro. Per te questa grandezza, come è capitato a Federer, si amplifica ancora di più quando gli avversari che ti fanno grande sono anche molto diversi da te? La diversità degli altri accresce esponenzialmente la grandezza di uno sportivo?
Nadal e Djokovic hanno aumentato la percezione della grandezza di Federer, gli hanno dato una portata storica diversa (e viceversa). In particolare la diversità di Nadal ha contribuito a fissare in modo più preciso e vivido Federer nell’immaginario. Il loro era il conflitto perfetto, dal punto di vista tecnico ma anche estetico. La presenza competitiva di Nadal ha costretto gli appassionati a fare una scelta tra due immaginari, tra due visioni del mondo. L’etica da lavoratore, la passione per la fatica, il tennis muscolare di Rafa; dall’altra parte l’eleganza, il tennis senza sforzo e lo spirito aristocratico di Roger. I contorni di questa tipizzazione di Federer sono diventati molto più netti dopo l’arrivo di Nadal. I due hanno proposto al pubblico delle prese estetiche immediate, al contrario di Djokovic. Il serbo ha funzionato soprattutto come villain. Per riflesso Federer e la rivalità con Nadal sono apparsi più nobili. Non che Djokovic abbia fatto cose particolarmente forti per risultare antipatico. Si è solo seduto dalla parte del torto perché tutti gli altri posti erano finiti.
A un certo punto del libro parli del tempo, dicendo che nel fluire del gioco, Nadal sembra fermarlo, Federer farlo scorrere velocemente. Ci spieghi meglio questa analisi perfetta sulla relatività percettivo-estetica nei confronti dei grandi sportivi?
È una distorsione percettiva che si nota in una partita di Federer: il suo campo si restringe mentre quello avversario si allarga. I suoi tempi sono ultra-accelerati, anche se la sua precisione tecnica tende a nascondere la rapidità brutale del suo gioco. Quando gioca bene sembra seguire un’ispirazione, entrare in una bolla in cui può sentire in maniera più esatta la triangolazione fra racchetta, pallina e campo. È una cosa che da fuori possiamo intuire, ma non come chi ha giocato contro Federer. Sono proprio i suoi avversari a descrivere questo senso di inferiorità che si prova giocando contro di lui. Il campo che si fa piccolo, il gioco fluisce rapido e ti senti impotente. Toni Nadal ha confessato di dire al nipote quando giocava contro Federer: «Ci saranno momenti in cui ti farà sentire inferiore. Tu resta calmo e lascia passare la tempesta». Nadal invece ha un gioco più strategico e manovrato, il suo non è un tennis di esecuzioni ma di tessitura dei punti. Intendiamoci, anche Rafa è un giocatore aggressivo, proiettato in avanti, ma la sua intenzione nelle partite più toste è stata quella di far impelagare lo scambio nella sua rete. Il tennis scorre più lento e paziente, i suoi colpi ti lavorano ai fianchi.
Secondo te, la bellezza obbligatoria a cui doveva magari senza sforzo sottostare, lo ha fatto più vincere o perdere?
Federer non è un’esteta. Ha dei vezzi, gli piace che le persone parlino di lui come di un artista, ci tiene a questa reputazione, ma è stato soprattutto un competitore straordinario. Io insisto spesso sul suo spirito perdente, ma è una cosa maturata nei suoi ultimi anni contro avversari eccezionali e più giovani di lui. Partite in cui ha pagato anche una consunzione nervosa spesso trascurata nei discorsi sul tennis. (Si invecchia forse prima di testa e poi di gambe). Ma anche in quelle partite ha mostrato una resistenza e uno spirito combattivo che forse abbiamo faticato a notare. Federer è uno dei tennisti che ha perso più partite con matchpoint a favore, ma anche uno di quelli che ne ha vinte di più annullando matchpoint. Ricordiamocelo.
Oltre alla sua tenacia, Federer è stato un pragmatico. Pensa a quando ha accettato di ingrandire l’ovale della racchetta per migliorare la pulizia del rovescio. Il dandy che accetta l’aiutino tecnico per eseguire meglio i colpi? Non è una cosa che possiamo dare per scontata. È un passo che Borg non accettò mai.
Anche chi è lontano dal tennis sa che gli ultimi 15 anni sono stati strepitosi per questo sport. Al netto dei talenti incredibili che si sono visti, il tennis ha avuto questa crescita perché è stato raccontato bene, creando personaggi favolistici ben congegnati, oppure ha avuto solamente culo?
Entrambe le cose. I personaggi sono stati raccontati in modo favolistico forse, ma anche perché le loro figure si prestavano a una caratterizzazione particolarmente forte. È anche il tennis in sé a permettere uno scavo psicologico profondo e una costruzione dei personaggi molto sfaccettata. È uno sport solitario, e l’incrocio di stili e personalità diverse fa brillare le differenze ed esaspera la tipizzazione. Federer e Nadal sono solo gli ultimi di una tradizione del racconto che funziona per tropi. Nella sua epoca dorata il tennis aveva un ricco pantheon di personaggi fumettistici: l’algido Borg, l’eccentrico Nastase, il nevrotico McEnroe, l’edonista Gerulaitis, il marziale Connors. Poi abbiamo avuto l’estroverso Agassi e l’introverso Sampras. Insomma, niente di nuovo. La fortuna è stata che la crescita globale dello sport in generale ha coinciso con questa straordinaria rivalità Nadal-Federer nel tennis. Questo ha dato una spinta. Di personaggi favolistici ne avremo altri in futuro.
Massima divinità, massima corruttibilità. Con Federer il tempo che passava lo leggevamo nella sua crudezza (anche se continuava a vincere, per grazia divina appunto). Come mai secondo te?
Succede con le carriere particolarmente longeve degli sportivi particolarmente amati. Rappresentano sempre un metro del tempo che passa, loro malgrado. Abbiamo seguito Federer sin da quando era un adolescente capriccioso con la faccia da neonato gigante. Lo abbiamo visto diventare un uomo e poi invecchiare. E poche cose come lo sport mettono a nudo il logoramento fisico. Tifando per lui abbiamo potuto immedesimarci nello schema universale delle età dell’uomo, ma è stato così anche per altri campioni longevi, o con fasi di ascesa e declino molto nette.