Da sempre e oggi più che mai (basta sentire le parole e vedere quello che fanno sul campo De Paul o Emiliano Martinez), Messi è seguito dai suoi compagni, anche se non ha nulla del leader classico, ancora oggi il prototipo della leadership nello sport. Perché Messi è un leader anche se non ha nessuna caratteristica tra quelle che insegnano ai corsi appositi?
C’è stata una sostanziale evoluzione nel processo di concezione (e direi percezione) della leadership di Leo. Il punto di partenza, se vogliamo disallineato rispetto alla norma, è nella silenziosità del suo carisma: Messi non è stato, per larghi tratti, un caudillo in senso classico, il volano propellente è sempre stata la sua dominanza tecnica, e il più bravo è sempre, in una maniera o nell’altra, l’esempio da seguire. Parliamo di una carriera lunga 17 anni, nella Selección: è chiaro che nel prime della sua carriera (vogliamo identificarlo nel quadriennio con Guardiola?), nonostante fosse tecnicamente ingiocabile, non avesse i crismi del trascinatore, del capopopolo. Il punto di svolta è stata la Copa America 2021: libero dal giogo di dover dimostrare che fosse l’astro luminescente che è stato a Barcellona, libero dal Barcellona, si è fatto Masaniello totalmente votato alla causa albiceleste. In Qatar il processo ha trovato un compimento: in questo lo ha aiutato anche il fatto che la generazione di calciatori che lo accompagna non ha condiviso le delusioni più atroci, non in campo, bensì emozionalmente. Questa generazione, Enzo, Alexis, Lisandro, Julián: sono tutti calciatori cresciuti nel mito di Messi. È un’icona e quindi un leader naturale. Più difficile vedere in Messi un leader quando non ha saputo trascinarti alla vittoria.
Tu però descrivi bene una sua caratteristica poco discussa. In fondo, se Messi sembra avere poca leadership, è molto politico, avendo influenzato in maniera determinante le traiettorie tecniche e non solo di Barcellona e Argentina. Che ne pensi?
È lapalissiano che un calciatore del suo peso specifico, all’interno di un contesto complesso come quello di un club pur massimamente strutturato – ma anche di una Nazionale ricca di tradizione – finisca per influenzare il contesto. Tatticamente, economicamente, da un punto di vista comportamentale. Allo stesso modo, le dipendenze non portano mai – quasi mai – a uno stadio che non sia, in qualche modo, velenoso. Messi per sua natura è fagocitante. Forse l’abilità vera è quella di non dico domare, ma incanalare questo flusso divorante.
L’epoca è quella che è, quella dell’ipercapitalismo dell’accumulo e Messi è stato raccontato proprio in questo modo, puntando tutto sull’accumulo appunto, aiutati in questo dall’altro (Cristiano Ronaldo) che voleva accumulare a sua volta. Non credi che questa narrazione, a differenza della tua finalmente arrivata, gli abbia nociuto? Messi è tanto altro rispetto al conteggio dei Palloni d’oro che ha vinto.
Viviamo immersi in una società che contabilizza il valore in beni materiali. In cui la percezione stessa del valore è inscindibile da una valutazione matematica. Per lunghi tratti della sua carriera ci siamo concentrati su questo aspetto per una ragione, secondo me, semplice e al contempo terrificante: ci siamo abituati alla meraviglia. E questo abituarci ha fatto sì che nello scorgere il picco della montagna cominciassimo a contare i passi mancanti anziché guardarci indietro e realizzare, osservando il panorama, quanto in alto ci trovassimo. Messi è ovviamente molto di più, ma un molto di più complicato da razionalizzare perché non esternato, perché non ci è stato servito sul piatto d’argento della dietrologia, dell’incursione nel privato. Tutto ciò che Messi è di più si nasconde dentro di noi, dentro ogni sensazione che ha saputo suscitarci quando lo osservavamo. E credo, lasciami aggiungere, nella nostalgia proattiva che ci suscita pensare a quando dovremo fare a meno di tutta questa meraviglia.
Pensando a Messi sembra che, a differenza di altri calciatori anche contemporanei, i tifosi e chi segue il calcio si soffermino molto poco sul suo passato, su quello che è stato. Messi sembra sempre che debba essere Messi ogni giorno, vive in un eterno presente in cui mostrarsi e dimostrarsi. Non so se ti fa lo stesso effetto.
Ogni calciatore, ogni campione, fammi dire ogni personaggio iconico, si materializza in una cristallizzazione che spesso sembra provenire da un hic et nunc contingente. Per Messi quell’hic et nunc è Barcellona, e il suo retroterra sembra più materiale da narrazione terzomondista. Io credo che il sostrato di Messi sia interessante proprio in termini di privazione: di una storia classica, di un’adolescenza narrativamente lineare, di una radice. Forse nello sforzo che le sue fronde maestose compiono alla ricerca delle radici, però, si nasconde il bias più interessante della sua parabola.
Messi ha reso più forti compagni di squadra fortissimi. È più facile questo o essere un one man band?
Niente è facile: né l’uno, né l’altro. Messi si è trovato conglobato in un organismo che osmoticamente era capace di sublimarlo ed esserne sublimato. A me sembra molto affascinante come sia riuscito a creare intorno a sé un’aura potente, parlo della Selección di Scaloni, proprio negando in prima persona l’assunto del solopsismo.
Molto bella l’idea di Màrius Serra che su “La Vanguardia” tira fuori per Messi 600 aggettivi. Ma per te il compito è molto più difficile. Se me ne dovessi dire solo tre?
Tre che non abbia usato Serra? Boh, poi magari controlla, i miei sono abbacinante, emblematico e pantocratico.
Pensando a tutta la sua carriera, secondo te Messi ha gestito (è stato gestito) bene la sua comunicazione? Oppure pensi che avrebbe potuto scegliere momenti in cui dimostrare valori importanti (come l’empatia verso una causa ad esempio) soprattutto per la sua legacy futura?
Quello della comunicazione è un tema importante, perché che ci piaccia o meno la percezione che abbiamo di un personaggio passa anche attraverso come si racconta, come sceglie di farlo. E non meniamocela con la storiella del dimostrare in campo. Nella gestione della sua immagine scorgo molta ingenuità: mai un gesto empatico (o paraculo) se non negli ultimi tempi, in cui ha fatto un po’ leva sulla famiglia, in senso ampio, quindi non solo quella propriamente detta, ma anche e soprattutto quella che lo supporta in campo. Ahimè si presta anche a campagna su criptovalute e NFT, ambasce a ministeri del turismo politicamente loschi. Insomma, chi ne ha improntato la comunicazione ha sempre pensato, e a quanto pare continua a farlo, che l’assunto continui a persistere: dimostrare in campo.
Tu che ci sei stato, in cosa è fortemente rosarino Messi?
Al di là dell’esserci stato, che forse può aiutare nella risposta alla domanda in cosa è fortemente messiesque Rosario, direi che la sua rosarinità è tutta in un paio di dettagli anche scemi se vuoi: l’accento – direi più l’intercalare – l’essere totalmente fatto di calcio, che è il minimo che ti possa capitare se nasci là, e poi l’iconicità. Rosario è una città che non ha un vero processo fondativo (ricordi la privazione del sostrato di cui parlavamo prima?) e che vive di miti. Eccone uno piuttosto iridescente.
Messi è il rappresentante dell’estetica supersonica nel calcio. Se non si può accelerare oltre, che facciamo in futuro, semplicemente lo imitiamo o freniamo e prendiamo un’altra strada?
Mi sembra complicato prendere un’altra strada: la devoluzione funziona davvero? Può funzionare nel calcio meglio che nel mondo in generale? Sono scettico. Al contrario credo che la supersonicità si farà sempre più supersonica, e la nostra capacità percettiva seguirà lo stesso trend. Proprio per questo, però, in quei millesimi di secondo in cui si verificherà, saremo sempre pronti a scorgere il nitore della straordinarietà del talento.
Nel libro descrivi perfettamente come Messi, forse a differenza di alcuni grandi campioni anche contemporanei, sia il mix di una serie di apprendimenti decisivi: il potrero ma anche l’organizzazione perfetta del Barcellona, la passione rosarina ma anche la razionalità che c’è dietro il calcio totale olandese. Messi ha saputo miscelare tutto nel suo calcio. In questo senso propendi più per la versione del genio composto pezzo per pezzo rispetto a quella dell’afflato semi-miracolistico dato alla nascita?
Direi che la definizione migliore è nella summa delle due: alla base c’è il bacio divino del dono del talento, ma un talento non perfettamente coltivato non si basta di per sé. Mettiamola così: Messi non è stato solo un vitigno dalle caratteristiche ben precise che cresce nel terroir giusto sotto le cure dei migliori vignerons, Messi è stata l’ottima annata.
Il ruolo di Ronaldinho. Secondo te è stato per Messi più un esempio da seguire o da cui allontanarsi?
Umanamente credo che Ronaldinho non potesse essere un esempio per nessuno che ambisse a una carriera longeva come poi è stata quella di Messi. Ma nella joie de vivre del calcio interpretato da Ronaldinho, nell’ imprevedibilità dell’estro, nella genialità della giocata disequilibrante, ecco, in questa fonte magica Messi si è abbeverato sostanzialmente, specie nella prima fase della sua carriera. E ha anche dimostrato che al soldo di un’organizzazione perfetta il calcio talentuoso può diventare un’arma letale.
Ragionamento “What if”. Se non ci fosse stato Guardiola, Messi cosa sarebbe stato?
Non sono un amante dei what if, mi sembrano giochi troppo complessi: se non ci fosse stato Messi, Guardiola cosa sarebbe stato? Se Rijkaard non avesse creduto in Messi, che carriera avrebbe fatto? Se non ci fosse stato il corralito del 2001, dove sarebbe finito Messi? All’Aldosivi? Mi limiterò a una risposta un po’ democristiana: probabilmente Messi sarebbe stato un calciatore comunque generazionale. Sarebbe cresciuto più gradualmente, vincendo meno? Forse sarebbe diventato, citando Arlt, un giocattolo rabbioso. Chi può dirlo. Il Barça di quel quadriennio è un meccanismo così congeniale che non sono sicuro sul risultato della privazione di un solo elemento.
Quanto ha dovuto adattarsi Guardiola a Messi?
Guardiola ha legato a doppia mandata i propri destini, i destini della sua idea di calcio, la possibilità di applicare con successo la sua idea di calcio in quel momento a Barcellona, a Leo Messi. Chiaramente ha dovuto adattarsi, ma forse userei un’altra formula: lo ha dovuto interpretare, e successivamente condiscendere, anzi canalizzare. I risultati, in fin dei conti, sono incontrovertibili.
Non credo tanto nel sabotaggio premeditato e inconscio che Maradona voleva compiere ai danni di Messi per restare il più grande. Secondo me lo aveva capito e voleva farlo restare nel suo desiderio di vincere senza grosse pretese extracalcistiche, voleva farlo vincere quasi come se la vittoria di Messi fosse il suo destino, da cui si è semplicemente lasciato guidare. Però ho capito che non sei d’accordo con questa idea.
Non so se è passato un messaggio sbagliato, nel libro lo spiego contestualizzandolo: non parlerei di premeditazione, sì di inconscio o comunque di predisposizione. Diego, in certi contesti, sapeva essere tossico: non che lo volesse, intendiamoci, però finiva per esserlo. Naturalmente. O per venire percepito come tale. Di quella Selección in Sudafrica, bisogna scendere a patti con questa idea, Diego è stata la rovina. Era una squadra che poteva arrivare lontano, è implosa. Messi incluso.
Messi è stato un ponte verso quale tipo di calcio?
“Un puente es un hombre cruzando un puente, che.”, scrive Cortázar nel Libro de Manuel. Mi piace molto questa immagine: anche Nietzsche diceva che la grandezza di un uomo è nell’essere un ponte, e non la meta, e Messi è la perfetta cristallizzazione di cosa significhi essere un ponte: è un uomo che attraversa un ponte, alle cui estremità c’è la continuità del talento, di un certo tipo di talento onnipotente, tonitruante, che si nutre di ammirazione e restituisce amore. Forse tutta la storia del calcio, in fin dei conti, è fatta di grandi uomini che attraversano ponti.
Ma secondo te si fa davvero un anno con La Lepra alla fine di tutto?
Secondo me no. Lo spero, non foss’altro. Da canalla non riuscirei a sopportarlo.