GIANLUCA VIALLI. L’UOMO NELL’ARENA. INTERVISTA A MARCO GAETANI

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Il calcio è così popolare e seguiamo le vicende dei calciatori con un’attenzione rivolta a poche altre persone. Detto questo, secondo te per alcune persone il percorso verso la morte di Mihajlovic e di Vialli ha cambiato determinate prospettive o in piccola parte ridefinito semanticamente il processo verso l’ultimo atto della vita?

Penso che le vicende umane di Mihajlovic e Vialli, peraltro estremamente diverse tra loro nella tipologia di racconto scelta dai due protagonisti, abbiano toccato un pubblico non necessariamente legato al calcio. Ci sono state persone che non seguono questo sport che hanno provato empatia e vicinanza nei confronti di due sportivi che hanno deciso di affrontare un tema delicato come la malattia in maniera pubblica: si può essere più o meno affini alla modalità di racconto scelta, di certo più muscolare nel caso di Sinisa, ma non c’è dubbio che esistano persone che si sono sentite vicine a due personaggi che magari conoscevano soltanto in maniera superficiale.

Gianluca Vialli è stato calciatore per pura scelta, non per talento, necessità o predestinazione. Ha senso un’affermazione del genere?

Ha senso e la estendo anche un po’: ti direi che è diventato calciatore per amore del calcio. Nel libro ho deciso di partire da quel bacio al pallone dato sporgendosi dalla panchina della Nazionale perché penso racchiuda l’infinita passione che Vialli ha avuto nei confronti del calcio. Sicuramente non aveva necessità, il suo talento era intuibile fin da giovanissimo ma era più legato all’aspetto fisico, che spesso sottovalutiamo, rispetto a quello tecnico. Se pensiamo al talento, immediatamente immaginiamo un calciatore di grande qualità, inventiva, visione: il Vialli adolescente era invece un profilo atleticamente diverso dai suoi coetanei. Mi viene in mente una frase la cui paternità viene spesso attribuita a Frank Layden, che è stato a lungo coach degli Utah Jazz in Nba negli anni Ottanta, e poi ripresa in epoche più recenti: «You can’t teach height», non puoi insegnare l’altezza. Nel calcio quello dell’altezza non è un parametro chiave, e sicuramente nel corso degli ultimi anni la capacità di sviluppare anche fisicamente un calciatore è cresciuta rispetto agli anni Ottanta: ma la combinazione di velocità, fisicità ed elasticità che aveva Vialli era qualcosa che non si poteva allenare. Non è anche questo un talento?

Avendolo studiato a fondo, ha senso dire che il percorso verso il professionismo sportivo è più o meno facile per un ragazzo di estrazione alto-borghese o non c’è distinzione sociale?

È uno dei temi che mi hanno affascinato maggiormente avvicinandomi a una figura atipica come Vialli. Penso non esista una risposta valida per tutti, di sicuro atleti come Vialli smentiscono la credenza comune per cui è necessario “avere fame” per sfondare. Abbiamo avuto e abbiamo grandi campioni che sono figli d’arte, e dunque nati da contesti agiati tanto quanto Vialli, se non di più, e altri usciti da situazioni di estremo disagio.

A pag. 38 del libro mi sono appuntato questa cosa: “Pag. 38, ancora nessun numero è stato riportato, sembra che autore voglia descrivere Vialli con l’ottica giornalistica degli anni ‘80”. C’ho visto giusto o è una cosa mia?

Dirti che era voluto sarebbe dirti una bugia, quindi non mi prendo questo merito. Credo che i numeri possano aiutarci per raccontare un campione soltanto come corredo: ha veramente importanza, per chi legge un libro su Vialli come in questo caso, sapere se nell’anno X ha segnato 10 o 12 gol? Mi è sembrato più interessante, per paradosso, usare i numeri quando invece raccontavano una storia in contrapposizione rispetto a quella dominante: ricordare che Vialli ha di fatto smesso di giocare in Nazionale a 28 anni, quando aveva teoricamente davanti a sé il periodo in cui un centravanti diventa più completo, a mio modo di vedere è un aspetto nel quale aveva senso utilizzare i numeri. Le presenze e i gol di Vialli a quel punto diventano interessanti: quante cose belle ci siamo persi per colpa di quel punto di rottura?

In un ambiente in cui si andava standardizzando il “calcese”, Vialli è stato un uomo nuovo per i media. Perché non ha voluto appiattirsi mai sull’“abbiam giocato bene” (detto con elisione della vocale finale come Fabio Cannavaro)?

La gestione dei media da parte di Vialli è stata illuminante. Dopo un iniziale periodo di apprendistato, inevitabile per un giovane, ha capito in fretta con chi aveva a che fare e Italia ’90 è stato uno spartiacque. Ho voluto inserire nel libro anche un paio di interviste con giornalisti molto legati a Vialli perché mi interessava il percorso: ho parlato con Paolo Condò del Vialli che rompe con praticamente l’intera stampa nazionale mantenendo però alcuni rapporti fidati e con Giorgio Porrà del Vialli che sfida l’ordine costituito accettando la sfida dello Sciagurato Egidio. Nella prima fase, quando smette di parlare con i giornalisti, a un certo punto si ritrova costretto a farlo, perché la Samp vince lo scudetto. Rivedere l’intervista concessa a Gianni Minà è stato profondamente educativo: Vialli rifugge il concetto del “vale tutto” e spiega la sua ritrosia a rispondere alle domande sempre tutte uguali e spesso maliziose. Non può essere uno stipendio, per quanto lauto, a dover giustificare quel tipo di esposizione. Poi passa dall’altra parte, inizia a essere egli stesso parte dei media, e lo fa nella maniera meno banale possibile. Per come la vedo io, a spingerlo è stata l’enorme intelligenza di base che lo ha supportato per tutta la vita: sapeva trovarsi perfettamente a proprio agio in qualsiasi circostanza e la banalità delle interviste sempre identiche alla precedente lo disturbava. Parlava quando aveva qualcosa da dire.

Che flop è stato Italia ’90 per Vialli: fisico, mentale, tattico, di adattamento? Perché ha fallito quello che poi sarebbe stato l’appuntamento più importante della sua carriera calcistica?

Ci sono momenti in cui tutto quello che può andare storto, va storto. Vialli inizia il Mondiale come la stella designata della Nazionale, fa l’assist per il gol di Schillaci all’esordio, poi sbaglia un rigore contro gli Stati Uniti e inizia ad avere problemi fisici; Schillaci, invece, vive i 25 giorni più incredibili della sua vita. Vialli aveva dovuto rincorrere quel Mondiale per la frattura del quinto metatarso subita a fine dicembre: erano stati mesi difficili e aveva appena ritrovato la migliore condizione. La pressione sui giocatori azzurri in quel Mondiale era stata enorme e Vialli è quello che l’ha subita di più.

Secondo te Vialli avrebbe dovuto vincere di più per essere maggiormente stimato rispetto ad altri grandi calciatori del suo tempo, probabilmente anche meno forti e decisivi?

Non lo so. Ci sono stati grandissimi giocatori che hanno vinto molto meno di Vialli e che sono stati comunque stimati in maniera universale e penso che lo stesso valga per lui.

Cosa cambia nel Vialli di Lippi?

Torna a essere qualcosa di molto simile al Vialli di Genova, ma con la consapevolezza di aver superato i due anni più difficili della sua carriera. Il biennio con Trapattoni lo vede defilato a livello di responsabilità in campo, per alcuni brani fuori ruolo, poi ai margini per una serie di infortuni. E in quei due anni c’era stata la costante volontà di tornare alla Samp, di tornare a casa. Trovare un allenatore che lo prende da parte e gli dice «Tu non vai da nessuna parte, non esiste una Juve di Lippi senza di te al centro dell’attacco», per poi responsabilizzarlo come leader supremo anche a livello emotivo, gli ha consentito di sentirsi nuovamente vivo. Nuovamente Vialli.

Riesci a fare sollievo a una mia pena, sintetizzata nella frase: “Ma com’è possibile che non abbiamo vinto niente (in Nazionale) con Vialli”?

Incredibile. Cosa daremmo oggi per avere una Nazionale con Vialli centravanti? Abbiamo visto delle squadre dal livello medio elevatissimo non vincere nulla: i Mondiali del 1990 e, uscendo dal periodo Vialli, del 2002 (ma ci metto anche l’Europeo del 2004), per me rimangono un mistero.

Secondo te non si è buttato via troppo presto come calciatore? Oppure ha capito prima degli altri dove stava andando l’Inghilterra?

Me lo sono chiesto e ho provato a chiederlo anche a chi gli è stato vicino nel corso degli anni. Da un lato, quella scelta, soprattutto la scelta di un Chelsea che in quel momento non era ancora una corazzata, continua a sembrarmi di totale rottura rispetto a un calciatore che aveva sempre vissuto la sconfitta come un’onta incancellabile. Dall’altro, però, ci vedo la decisione di un uomo che ha fatto pace con la sua fame di successo e che vuole recidere il cordone ombelicale con un modo tossico di vivere e raccontare il calcio: andare in Inghilterra in quel momento storico fu una scelta di profonda rottura, pionieristica e vincente.

Come racconti benissimo, Vialli è sempre stato in mezzo alle polemiche. Forse perché era troppo smart per quell’ambiente?

Perché era un profilo diverso dal calciatore tradizionale. Destava curiosità in un giornalismo molto datato, molto bacchettone, e aveva un gusto innato per la provocazione: gli piaceva anche fare delle piccole cose a effetto per vedere le risposte che si innescavano. Quando nel libro scrivo di un certo modo di reagire dei giornalisti alle sue provocazioni, faccio il paragone con Gigi Lentini per indicare due profili che venivano spesso beccati dalla stampa, ma partendo da punti di partenza opposti: Vialli riusciva a controllare i fili di questo meccanismo, Lentini li subiva.

L’abbraccio a Wembley con Mancini è il suo testamento. Cosa ci dice nello specifico?

Nella presentazione del libro che c’è stata a Roma, Daniele Manusia mi ha chiesto degli abbracci tra Vialli e Mancini: quello contro l’Austria e quello dopo la vittoria dell’Europeo. Mi spiace riciclare quella risposta, ma penso sia fondamentale. L’abbraccio dopo la rete di Chiesa all’Austria è quello tra due compagni di squadra: non indossano i pantaloncini ma il completo, ma per il resto la reazione è quella di due uomini di spogliatoio che si abbracciano dopo un gol. È puro sport, puro calcio. Il post Wembley è un’altra cosa, sono i corpi di due uomini che si spogliano di tutto: del loro ruolo, del pudore che la cultura machista che permea il calcio trasmette ai suoi protagonisti. Sono due uomini che su un campo che hanno odiato si ritrovano a potersi permettere il lusso di dimenticare e ricordare allo stesso tempo: non c’è solo la vittoria di un torneo e il fatto di aver cancellato Wembley 1992, ma c’è il coronamento di un’ultima, enorme esperienza collettiva che uno ha voluto regalare all’altro. Ci sono i mesi in cui al telefono parlavano di tutto tranne che della malattia di Vialli, per provare a ricavarsi una piccola oasi di serenità, e poi i giorni trascorsi gomito a gomito in quel ritiro, in cui la figura di Vialli è stata dominante per tutti i componenti di quello spogliatoio. Se l’abbraccio post Austria era calcio, quello post Inghilterra è semplicemente vita.

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