IL LEONE E IL CORAZZIERE. INTERVISTA A MARCO PASTONESI

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Le storie che racconti ti inseguono per anni o le cogli al volo appena capisci che parlano di uomini normali eppure straordinari?
Storie, l’innamoramento è istantaneo, la voglia immediata, la paternità (maternità?) molto più lunga, e poi via, d’un fiato, a raccogliere, integrare, selezionare, scrivere, irrobustire e sottrarre. Fino a quando, stanco – stanchissimo – non ho più le forze per rileggere e correggere.

Hai già raccontato il rugby e il Galles nel tuo “La meta più bella della storia”. Cosa ti piace nel profondo di questo legame così forte?
Il Galles è rugby e il rugby è gallese per natura, indole, storia, per villaggi, campanili, pub, per storie, tradizioni, leggende, per orgoglio. Il professionismo ha modificato le strutture, ma non i legami, i lacci, i tacchetti.

Nel libro dai una bellissima idea di Rovigo, oggi persa nel rugby globale che vediamo anche da non esperti. È riscopribile e “riutilizzabile” anche nel racconto del rugby moderno Rovigo e il suo animo ovale?
Rovigo è un piccolo dipartimento gallese in Italia. Carwyn James, a Rovigo, scoprì come ogni famiglia fosse legata alla squadra di rugby per aver dato piloni o estremi, braciole o caraffe, colori o trasferte. E vive ancora di questo, in un’altra epoca, in altre maniere.

Oggi a San Bortolo c’è lo stesso spirito di quando c’erano Maci, Doro e gli altri?
Altri tempi. Quelli di Maci Battaglini e Doro Quaglio erano di miseria e fame, dunque di semplicità ed essenzialità. Il rugby era la possibilità per affacciarsi al mondo, e di scoprirlo, il mondo era tutto quello al di là del Po e dell’Adige.



Ci tratteggi brevemente la figura di Maci nella storia del rugby italiano?
Maci, così forte – per natura – da eccellere dovunque si cimentasse, si racconta di un giorno in cui giocò una partita di calcio la mattina, una di rugby il pomeriggio e un match di pugilato la sera. Maci, il primo italiano a giocare in Francia, tre anni da protagonista, due volte il migliore marcatore del campionato. Maci, seconda linea, anche terza centro, poi in tutti i ruoli, mediano di mischia e mediano di apertura compresi, “date la palla a me ché poi ci penso io”. Maci, il giocatore e poi l’allenatore e sempre il missionario, anche da bidello, quando portava al rugby i timidi perché si svegliassero, gli agitati perché si disciplinassero, gli irrequieti perché si sfogassero.

A un certo punto riporti le parole di Barry John, secondo il quale Carwyn James lo faceva pensare, così come faceva pensare tutti. Come sviluppava Carwyn questa capacità?
Carwyn James predicava l’errore, la possibilità di sbagliare per reagire, cercare, trovare, inventare una soluzione. La ricerca della variante variabile, quella sconosciuta, misteriosa, imprevista e imprevedibile, e forse indifendibile. Voi dovete pensare, ripeteva. Si può perdere ma solo dopo aver pensato, spiegava. E in caso di sconfitta, si arrabbiava solo se i suoi giocatori avessero giocato senza aver pensato. Tant’è che, durante la partita, non sedeva in panchina, spesso neppure in tribuna, esistono fotografie in cui a Rovigo seguiva il match seduto su una cassetta della frutta all’uscita degli spogliatoi. Io vi alleno da lunedì a sabato, aveva annunciato ai rodigini stupiti, quello è il mio regno, ma la partita della domenica spetta a voi, quella è la vostra festa.

L’hai vista la tovaglia di Gisella? Se sì, che effetto ti ha fatto?
La tovaglia di Gisella – una sorta di Hall of Fame, seppure nel tinello – è una reliquia, visibile per pochi intimi, scaduta quando Doro mi costrinse ad apporre anche la mia firma.

Quali erano le caratteristiche principali del rugby di Carwyn?
Per Carwyn: l’immaginazione al potere. Dunque: sessantottina. In verità molte partite del Llanelli, dei Lions e del Rovigo sono state vinte grazie alla solidità della mischia e ai piazzati dei calciatori, antiche regole mai dimenticate o rinnegate. Ma l’invenzione, la trasgressione, l’esplorazione, insomma: l’errore, erano sempre in agguato. Il rugby di Carwyn era – allo stesso tempo – scientifico e artistico.

E invece quelle del rugby di Doro?
Per Doro: “Datemi otto montanari di Belluno cui insegnare a passare indietro il pallone”. Segno della supremazia degli avanti sui trequarti. Perché di Belluno, mai svelato. Il rugby di Doro era – profondamente – umano e spirituale.