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Il libro è molto bello perché gli atleti, oltre a raccontare i fatti, si aprono ai loro ricordi e alle emozioni rimaste e mostrate attraverso riflessioni spesso anche molto profonde. È stato facile fargliele tirare fuori oppure il percorso, potremmo dire, di apertura è stato lungo?
Ci sono interviste che sono scivolate via da subito all’insegna della grandissima apertura e altre che magari hanno avuto un punto di svolta: parlando con Rombaldoni, per esempio, l’ho visto proprio cambiare faccia e aprirsi nel momento in cui gli chiedevo dell’esclusione da Svezia 2003. In generale, ho trovato una disponibilità che innanzitutto non è scontata e una voglia di raccontare che per esempio non appartiene al mondo del calcio, se non in minima parte.
Quella squadra quanto è figlia della Varese di fine anni ’90?
Beh, a livello anche solo numerico, tantissimo: Recalcati, Galanda, Pozzecco, De Pol che era in Svezia e che non sopravvive ai tagli finali per andare ad Atene, e in tutto questo non avevamo già più a disposizione Andrea Meneghin per i problemi fisici. Ma più che di Varese, è una squadra figlia delle esperienze del suo coach: la prima intervista che ho voluto fare è stata quella di Recalcati perché secondo me era fondamentale il suo racconto per ricostruire tutto il lavoro anche di ricerca che aveva dovuto svolgere. E lui accetta quell’incarico, con una squadra a fine ciclo secondo tutti, perché sapeva di avere a disposizione uomini che aveva già allenato nei club.
Che idea ti sei fatto della variabile Pozzecco? In quella squadra in particolare ma anche in generale riguardo al nostro basket di quegli anni.
Un giocatore e un personaggio forse senza precedenti nella storia recente del nostro basket, innanzitutto per il suo peso mediatico, pur partendo da uno sport che di fatto quasi non ne ha se paragonato al calcio. Arriva a quel ciclo azzurro senza essere al suo apice, perché quando avrebbe potuto ambire a una maglia in quintetto si è trovato estromesso da Tanjevic, sacrificato sull’altare di un meccanismo di squadra che aveva funzionato alla perfezione. Mi ha sorpreso ritrovare sui giornali dell’epoca l’esatta ricostruzione del suo dialogo con Recalcati prima della Svezia. Me l’hanno riraccontata vent’anni dopo ed era esattamente la stessa di quella dell’epoca, segno che l’avevano affrontata con la massima onestà. A livello tecnico, una tipologia di playmaker lontanissima da quella che avevamo in testa in quella fase storica: è il motivo per cui non poteva funzionare in Svezia, con un gruppo ancora in costruzione e per cui ha funzionato alla grande in Grecia, quando quel collettivo aveva già un vissuto di rilievo.
Come hai raccontato in alcune parti del libro, quell’Italia era già molto contemporanea pensando al gioco espresso. Grande importanza delle percentuali dal perimetro, lunghi capaci di fare tante cose, imprevedibilità sui pick and roll. È stato un caso oppure Recalcati ha davvero aperto una piccola strada?
Non c’era strada diversa se non quella: difesa alla morte e capacità di attaccare in due-tre modi, senza strafare. Avevamo alcuni giocatori che erano forse in anticipo sui tempi, penso a Galanda su tutti, capace di costruire tutto nel modo migliore.
La variabile gruppo è stata per forza di cose decisiva. Al di là di pochi esempi, secondo te perché le grandi narrazioni dello sport italiano riguardano soprattutto gruppi di atleti? Noti una scelta precisa rispetto alle grandi narrazioni sugli eroi soli contro tutti della letteratura sportiva anglofona o è un caso che ha riguardato la nostra storia sportiva?
Penso sia un discorso relativo alla combinazione personalità/successo. Per avere una grande narrazione di un singolo, serve un essere umano in grado di attirare la folla, nel bene o nel male, oltre la vittoria: pensa a Tamberi, che comunque risulta estremamente divisivo nonostante i successi. Qualcosa di analogo capitava con Valentino Rossi, che finiva per essere antipatico ad alcuni soprattutto per il carrozzone che gli girava attorno. Sono pochi gli atleti che hanno avuto una parabola davvero nazional-popolare, in epoca più o meno recente mi vengono in mente solo Tomba e Pantani, anche se nel caso di Pantani non manca la fronda contraria. Forse diventa più facile identificarsi con un grande gruppo che all’interno può avere anime diverse.
Mettendo tutti quegli atleti su una bilancia, era una squadra che ha raggiunto quel grande obiettivo più per ignoranza (ignorando i suoi limiti rispetto ad altre squadre) o per sapienza (capacità di analizzare i singoli avversari, scoprendo i loro limiti)?
Qui la bilancia pende nettamente dalla parte della sapienza. Era un gruppo estremamente consapevole dei propri limiti e dei propri punti di forza: nell’esergo del libro ho messo due piccole frasi di Bulleri e Soragna che descrivono proprio quella che era la loro mentalità. Sapevano cosa potevano fare e cosa invece non potevano permettersi di fare. Hanno vinto partite in maniera estremamente differente: se riguardi Grecia-Italia a Svezia 2003, a tratti vuoi cavarti gli occhi per lo “spettacolo” offensivo di entrambe le squadre, ma ti rendi anche conto della maniera sublime in cui per svariati minuti hanno totalmente impedito alla Grecia di produrre attacco. Se invece prendi la partita subito successiva, quella con la Spagna, scopri una squadra che nei suoi momenti migliori risulta incontenibile in attacco. Sono cose che fai, se sai chi sei e chi hai davanti.
La generazione di cestisti italiani che hai raccontato è stata l’ultima nostra grande generazione. Secondo te perché in quel momento il basket italiano non è riuscito a porre le basi per una costruzione solida che ci avrebbe sostenuto nel tempo, fino a oggi? Eppure appena dopo siamo arrivati in NBA.
Penso che la foto migliore dei gruppi successivi ce l’abbia data qualche mese fa Andrea Bargnani, uno che parla poco ma quando lo fa dice cose che meritano di essere ascoltate. Ti riprendo il testuale: “Eravamo fortissimi presi singolarmente e abbiamo fatto molto meno di quello che potevamo e dovevamo fare, ci sta che ci abbiano criticato. Secondo me eravamo poco maturi, pensavamo molto al nostro orticello, concentrati sul nostro percorso. Ci serviva molto la palla, parlavamo poco, credo che oggi sarebbe tutto molto diverso”. A un certo punto, nell’intervista che ho fatto a Flavio Tranquillo, lui mi racconta di essere rimasto impressionato nell’aver osservato un allenamento di quella squadra in Svezia e di aver realizzato quanto si parlassero. Una generazione diventa di successo se si incastrano tutti i pezzi del puzzle: l’Italia di quel biennio aveva gente che voleva il pallone e gente che sapeva farne a meno, aveva gente che pensava pallacanestro e si confrontava a riguardo. E aveva giocatori forti, protagonisti in finali scudetto e in Eurolega ad alto livello. Adesso il campionato italiano è meno forte di quello di vent’anni fa, girano meno soldi e più stranieri di basso livello, non credo sia tanto un discorso di “giocano poco, giocano meno”. E in questo momento, se hai un figlio che a 12 anni è un metro e ottantacinque, è più probabile che lo mandi a giocare a pallavolo che a basket, perché il volley ha una copertura maggiore del territorio, ha un movimento in salute ed è lo sport dominante nelle scuole.