Il libro ha un passo da romanzo davvero notevole. Perché hai fatto la scelta di far raccontare la sua storia direttamente al protagonista?
Innanzitutto ho scelto la forma del romanzo perché nella vita di Sandro Puppo la realtà supera spesso anche la più fervida fantasia. Un saggio avrebbe appiattito il racconto ed eliminato la magia che avvolge dall’inizio alla fine questa figura davvero straordinaria, al di fuori di qualsiasi schema. Per lo stesso motivo, ho deciso di far raccontare la storia direttamente dal protagonista, assumendomi una grossa responsabilità. Ma solo la prima persona riusciva a rendere in maniera adeguata l’incredibile ritmo narrativo di una vita spesa tutta all’avventura in giro per il mondo, sempre in bilico tra epica e tragedia.
Puppo è figlio delle sue tante esperienze. È stato uno dei primi nel calcio a fondere insieme vite diverse. A chi si potrebbe paragonare?
Puppo era contraddistinto da molteplici sfaccettature che lo rendono tutt’ora unico: sportivo, filosofo, musicista, psicologo. Parliamo di un italiano cresciuto in una enclave britannica nel cuore della Cina degli anni Trenta, tra filosofia orientale, confucianesimo e un’educazione britannica da lord inglese. Umanamente, lo si potrebbe paragonare a Nils Liedholm, non a caso il collega che più stimava. Dal punto di vista calcistico, invece, aveva diversi tratti in comune con Arrigo Sacchi: per lui il calcio era uno spettacolo artistico che doveva intrattenere lo spettatore, come a teatro. Inoltre non lavorava per i risultati nell’immediato, ma per costruire qualcosa di nuovo, che gli altri non riuscivano nemmeno a immaginare. Purtroppo, a differenza di Sacchi, è vissuto in un’epoca non ancora pronta a un tale cambiamento e non ha mai trovato un presidente che gli abbia concesso il tempo necessario per sviluppare a dovere le proprie idee. Puppo giocava a zona già negli anni Cinquanta, ai tempi di Rocco ed Herrera. Era troppo in anticipo, di almeno trent’anni.
Ha vissuto il Novecento nella sua pienezza, da personaggio sicuramente secondario ma incontrando e alcune volte legandosi a personaggi di primissimo piano. Il tuo è anche un racconto della Storia, hai voluto insistere molto su questo elemento o hai seguito semplicemente la traiettoria del personaggio?
Man mano che ricostruivo le tappe della vita di Sandro Puppo, ero sempre più incredulo di fronte ai suoi incroci con la Storia. A ogni grande evento del Novecento, lui c’era. Da testimone secondario, certo, ma era sempre lì, in ogni angolo del mondo, nei momenti salienti. A Berlino mentre Jesse Owens umiliava gli atleti ariani di fronte a Hitler, a Shanghai mentre i giapponesi facevano le prove della Seconda guerra mondiale, a Vienna pochi giorni prima dello scoppio del conflitto, in Italia mentre si consumavano gli anni più duri della dittatura fascista e della guerra civile successiva all’8 settembre, a Barcellona mentre imperversava la repressione di Franco, a Istanbul negli anni dei grandi cambiamenti e dei colpi di stato militari, a Città del Messico mentre si giocava il Mondiale forse più iconico di sempre. E potrei andare avanti così ancora a lungo. Il Novecento mi è parso parte integrante della vita di Puppo, quasi fosse un personaggio. Sicuramente è una delle chiavi necessarie per comprendere l’eccezionalità di una figura costantemente sulle montagne russe della Storia. Senza sosta.
Poiché Puppo ha conosciuto tanti personaggi fondamentali nella storia del calcio, perché hai scelto quell’immagine di copertina in particolare?
Puppo era affezionatissimo alla foto con Pelé e Gérson scattata al Motel Suite Caribe di Guadalajara nel giugno 1970. Tanto che negli ultimi anni di vita – quando persino Piacenza, la sua città, lo aveva dimenticato – regalava quella foto a chiunque conoscesse. L’aveva anche allegata a Calcio, quo vadis?, lo straordinario libro sull’evoluzione del calcio pubblicato nel 1974, con tanto di riproduzione degli autografi che quei campioni gli avevano fatto sul retro dell’immagine originale.
Per Puppo, la partecipazione ai Mondiali del 1970 come membro del gruppo tecnico della FIFA fu il classico canto del cigno, mentre Pelé era “l’extraterrestre che veniva da un altro pianeta”. Gérson invece costituiva la mente di un Brasile che incarnava i principi tattici, tecnici e morali del suo modo di intendere il calcio, quello che l’Italia del catenaccio aveva rigettato. In quella foto non ci sono solo dei campioni, ma anche il trionfo delle idee per cui Puppo è stato messo da parte dal nostro calcio.
C’è stato un calciatore (non altre figure) che è stato maggiormente decisivo nella sua traiettoria da calciatore e allenatore?
Mentre era calciatore, direi Valentino Mazzola: con lui ed Ezio Loik costituì un incredibile triangolo di forza che fruttò al Venezia una Coppa Italia e il sogno di uno scudetto sfumato in extremis. La testa di Puppo e la classe di Mazzola si sposavano perfettamente, tanto che la Juventus cercò in tutti i modi di prendere Puppo quando Mazzola e Loik si trasferirono nella città sabauda per iniziare il ciclo del Grande Torino. Quando era allenatore, invece, direi Luisito Suarez, che ha allenato solo un anno al Barcellona, ponendo comunque le basi della sua straordinaria carriera. A costo di inimicarselo, in allenamento lo faceva giocare a boxe contro il compagno di squadra più possente, per rafforzarne il fisico gracile. Mentre in partita a volte gli vietava di superare la metà campo per evitare che diventasse troppo individualista e che si montasse la testa a soli diciott’anni. Si accorse subito di avere tra le mani un diamante e lo sgrossò poco alla volta, senza bruciarlo. Anche grazie a quell’esperienza, Puppo capì che era nato per crescere i giovani e costruire progetti, non per recitare la parte del mago che si prende la scena e vince tutto a suon di milioni spesi dai presidenti. Da questo punto di vista e tornando alla domanda di prima, oggi sarebbe più un Gasperini che un Guardiola.

Puppo ha vissuto anche in spazi praticamente già globali. C’è una città o un luogo che secondo te lo ha “toccato” di più?
Questa è una domanda molto difficile e alla quale forse nemmeno lui avrebbe saputo rispondere. Grazie ai ricordi di una persona che lo ha conosciuto, però, so che nei suoi ultimi anni rimpiangeva Shanghai e che gli sarebbe piaciuto tornarci, anche solo per un breve viaggio. Peccato che della “sua” Shanghai – ovvero della città più cosmopolita del mondo negli anni Trenta – a quel punto rimanesse soltanto il nome. Del resto, la cosiddetta “Parigi d’Oriente” – con le sue Concessioni internazionali dove si viveva in una dimensione sospesa tra Cina e Occidente – era scomparsa già pochi anni dopo il ritorno di Puppo in Italia, in seguito all’invasione giapponese. In quella sorta di “isola che non c’è”, Puppo era cresciuto e aveva imparato a giocare a calcio da avventurieri inglesi e irlandesi, solcando l’Oceano Indiano per disputare tornei internazionali contro i soldati delle marine di mezzo mondo.
Nel percorso generale del calcio italiano, secondo te Sandro Puppo allenatore cosa è stato?
Definirei Sandro Puppo un rivoluzionario in abiti da sera che non è stato capito e non ha saputo alzare la voce quando forse ce ne sarebbe stato bisogno, lasciando così poche tracce nel calcio italiano. Sia perché troppo avanti per i suoi tempi, sia perché troppo diverso dagli altri e troppo poco italiano, sia perché aveva un carattere per nulla incline ai compromessi e ai giochi di potere. Non a caso, è stato molto più conosciuto e apprezzato all’esterno. In Turchia era un mito, a Barcellona conquistò i catalani in un solo anno, pur arrivando secondo dietro al grande Real di Di Stefano. Fu lui a decidere di lasciare la Catalogna per motivi familiari, dopo che la giunta del club lo aveva confermato. Un caso più unico che raro, anche perché lasciò per la peggiore Juventus di sempre: un solo grande giocatore come Giampiero Boniperti, un paio di stranieri misteriosi e non all’altezza, più un manipolo di ragazzini spesso presi in prestito dai banchi di scuola. Era la Juve dei “Puppanti”.
Alla fine è anche un Ulisse che torna a Itaca e gli fanno le scarpe. Volevi raccontare anche una storia di grandi delusioni?
Proseguendo il parallelo con l’epica, Puppo non è l’invincibile Achille ma il più umano Ulisse, sempre in viaggio con tanta sete di conoscenza e poche certezze. Un eroe tragico che non pianifica i passi migliori per la propria carriera, lasciandosi trasportare da un vento impercettibile che lo sballotta in giro per il mondo, senza un disegno preciso. A tratti modifica la rotta per tornare dalla sua Penelope, rinunciando per esempio alla grande occasione di aprire un ciclo al Barcellona, la vera svolta mancata della sua carriera. Poi se ne pente e dispiega nuovamente le vele verso la Turchia o il Messico. La vita di Puppo è un alternarsi di picchi altissimi e cadute rovinose. Anche per questo è straordinariamente autentica e appassionante.