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Un’inquadratura di Foggia dall’alto. Piazza Cavour al tramonto di un giorno di pioggia. L’asfalto lucido che rende scintillante il traffico. Zoom sulla fontana, arditi primi piani sulle ragazze al passeggio, con le giacche e le spalline ancora tanto 80’s. Il vecchio mercato coperto. Donne con lo scialle in testa, con le buste della spesa di plastica. L’inviata offre il microfono in pasto alla varia umanità di un venerdì mattina. “La squadra c’è e andremo in serie A”, dice il primo. “Con Zeman è inevitabile”, conferma il secondo. “A parte che Zeman è un allenatore che lo vorrebbero tutti quanti. Purtroppo ce l’ha il Foggia”, sottolinea freudianamente il terzo. Un ragazzo più giovane degli altri. Una signora di nero vestita fa capolino sulla massa inquadrata: “Abbiamo i mariti tifosi”, confessa. E certo. Chi non è tifoso del Foggia nell’autunno del 1990? Siamo primi in classifica in B, stiamo scavando un solco, la quinta arriverà a starci 9 punti dietro. Ed è il calcio dei 2 punti a vittoria. Impossibile trovare a Foggia gente che ammetta di tifare per altri colori. Si porta il rossonero. È il trend, e gli stili si seguono. Imperativo categorico. Paola Arcaro, colei che porge il microfono alla popolazione festante, lo sa. È l’inviata di A tutta B. E a sera si trattiene sul manto dello “Zaccheria”, dove Zeman fa provare le punizioni “sotto un cielo plumbeo” che rimanda “l’auspicio di un arcobaleno”. Fede cieca nel positivismo del modulo e viscere di animali sacrificati. È terra di Sud, questa. È pur sempre “o’diavolo che abballa d’int a sta tarantella”. Il pallone supera la barriera fatta di sagome “mentre la luna resta a guardare”. Fuori dal bar, uno striscione e tanta gente. Ancora microfono aperto. Ancora umori di piazza: “Ma ormai il Foggia è super!”. C’è anche spazio per qualche rimostranza: “Vorrei dire soltanto una cosa al signor presidente Casillo. Vorrei che i portoghesi non ci sarebbero più”. Un romantico calessino si perde nei rondò. Sul sedile il sindaco Verile parla di questa vigilia. La spensieratezza del clan, il divertimento, gli scherzi a tavola, Beppe Signori che rimpiange la polenta bergamasca. Poi la vigilia finisce, e le inquadrature sono per lo spettacolo pirotecnico della curva strapiena, per le colombe che volano in cielo, per il tifoso folkloristico in tribuna con tanto di giacca rossa, cappello e vistosi amuleti. Vento del Sud. Manca il sale da spargere in area di rigore, manca l’uomo che si avvicina al mister per il consueto passaggio di caramelle. Ma per il resto c’è tutto. Compreso un irritante jingle di sottofondo da matrimoni anni Ottanta o da tv privata. Fate voi. Eppure questa è Rai Tre. “Capricci foggiani”. Cinque minuti da Grand Tour settecentesco per signorotti di Alzano Lombardo o di Fossacesia, estimatori del nuovo Profeta (come lo chiamano Franco Strippoli e Beppe Capano su Rai Uno) ansiosi di conoscere – antropologicamente – la fauna della landa semisconosciuta dove ha impiantato la mala pianta del 4-3-3.
C’è tutto, in questo servizio. Tanto da farne un archetipo. Ciò che stava nascendo e ciò che sarebbe stato. Più volte, anche nell’epoca pre-Youtube, l’ho riguardato in vhs. Ed ogni volta un brivido da scampato pericolo m’ha percorso la schiena. Materiale del passato, reperti archeologici riaffiorati da un’altra era geologica. Meglio così. Da allora, da quando quell’insopportabile mito della “squadra simpatia” è finalmente (e si sperava definitivamente) tramontato, abbiamo vissuto tre retrocessioni ed una promozione. Con mister Marino, dalla C2 alla C1, ora Prima Divisione Lega Pro. Finiti caviale e salmone da calcio-champagne, siamo tornati all’acquasale. Con bacinelle colme ad ammorbidire il pane raffermo. Gli spalti si sono svuotati, la città è progressivamente tornata alle sue naturali inclinazioni: milanisti, romanisti, interisti hanno completato la muta e sono rientrati nell’ordine. Anni pieni di un nulla appagante (Burgnich ci salva due volte in B, Caso ci precipita in C1, lo spareggio di Ancona ci affonda in C2), che indurisce i muscoli e fa passare la sbronza. Stagioni di dolori e gioie sfiorate (che sono dolori all’ennesima potenza), vissuti in mille, duemila, tremila fedelissimi. Ma – è questo che conta davvero – il dimenticatoio calcistico quanto meno ci restituisce quello che eravamo: un’arcigna, finanche antipatica, realtà meridionale. Non più il Chievo Verona ante litteram. O il Castel di Sangro. O il Cittadella. Non più l’oasi dello stereotipo, l’isola felice del cliché, ma una piazza reale, da sempre appassionata di calcio. Non più l’accademia, l’università della zona integrale, ma carne e sangue. Per nulla pittoreschi, nuovamente noi stessi.
La soap
Fino a questa estate piena di colpi di scena, più e meglio di una soap brasiliana. Dal primo intervento telefonico di Pasquale Casillo ad una tv locale, la città che covava braci sotto la spessa cenere di quindici anni di oblio, è tornata ad animarsi. Una sorta di elettrico tam-tam, un’onda anomala di ricordi, leggende travestite da nuove speranze. Non si è parlato d’altro per settimane. La maggioranza silenziosa, da sempre migliore alleata d’ogni piano autoritario, si è dimostrata eccellente compagnia di manovra per il nuovo-vecchio capitano di ventura. Tanto da defenestrare – col solo peso delle chiacchiere – una dirigenza che, dalla sua, ha avuto il grave torto di non centrare la promozione per tre anni di fila. Oltre che – reato gravissimo nell’era della comunicazione totale – di non saper parlare al cuore della gente. La mitopoiesi, l’indefessa produzione di sogni, riveste ancora un ruolo centrale, persino nel calcio delle pay-tv. E, prima ancora che i vecchi soci gettassero definitivamente la spugna, il sogno era già diventato forza eversiva. Nei bar, nei saloni da barbiere, nelle botteghe alimentari, dai vinai. Zeman. Bastava il nome, la semplice evocazione, il sussurro a mezza bocca con occhi sognanti in coordinato, a far saltare gli equilibri. Zeman. E il mito di una nuova Zemanlandia, con gli annessi e i connessi tipici di questi salti all’indietro. Un delirio da alchimisti alla ricerca della pietra filosofale. La vera, grande utopia dell’umanità ricreata sul manto verde di uno stadio: fermare il tempo, riportare le lancette della Storia laddove risultano ammortizzate, innocue. E, per questo, esaltanti.
Pere evidente: qui non è semplice questione di modulo, di un personaggio ossessionato dalla perfezione dei suoi schemi tanto da svilirne gli interpreti, se non in campo quanto meno nella mentalità diffusa e conseguente. Ma se ragazzini che non hanno mai visto la serie B parlano “di quella volta che abbiamo battuto la Juve” come se ci fossero stati anche loro sui gradoni della Sud, allora il problema attorno al quale dibattiamo a Foggia da tre lustri è sempre lo stesso: l’epica. Il mito cavalleresco che si fa romanzo popolare, chanson de geste. Zeman che costringe i suoi a scalare i gradoni, Zeman nemico del palazzo, Zeman ultimo ribelle. Alla notizia della sua nomina, alla sua presentazione, la Foggia carbonara e clandestina, quella che aveva disertato senza scrupoli o malumori negli anni oscuri, è tornata a spingere. Senza pudori di sorta. Al Teatro Ariston, meno di un mese fa, c’erano oltre 40 gradi percepiti e lavori in corso nel loggione. Ma nonostante questo, oltre seicento persone si sono contese i posti a sedere. Solo per rivederli assieme, quei tre – con Zeman e Casillo anche il ds Pavone – solo per sentir dire al Boemo che in ritiro si torna dalle parti di Campo Tures. Laddove eravamo. Lancette indietro all’estate del 1991. Alchimisti all’opera. E tu puoi passare ore a spiegare che no, non abbiamo mai battuto il Milan, né tanto meno l’Inter, che il Mister (con la maiuscola) è reduce da anni di cocenti esoneri, che – dati alla mano – non è vero che le sue squadre, come le viole, sbocciano a primavera, che il continuo evocare il complotto per giustificare i fallimenti professionali è infantile ed insultante per il diretto interessato (se non fosse che il diretto interessato lo afferma senza problemi). “È il sogno – mi dicono – lascia che la gente sogni”. E sia. Ma non mi va di chiuderla così semplicisticamente. Anche i sogni hanno le loro caratteristiche, per come la vedo io. Esiste un sogno progressivo, che mira l’orizzonte e spinge ogni atomo nel corpo popolare a tirar fuori il meglio, tacitando le scorie della paura, dell’opportunità, della logica. Un sogno fatto di riscatto e liberazione. E ne esiste un altro, regressivo, che mira l’orizzonte alle spalle, che dal corpo popolare tira fuori le nostalgie, le vecchie infatuazioni, i simboli delle trascorse (e presunte) età dell’oro. Ed è un sogno restauratore, che si alimenta di illusioni e non di pratiche, che deresponsabilizza e spinge a lasciarsi guidare. Ecco, a Foggia non c’è dubbio: stiamo vivendo l’orizzonte alle spalle.
Chiosa realista e speranzosa
Ma siamo tifosi dell’Unione Sportiva. Pur tuttavia.
Nessun dirigente, nessun tecnico, nessun giocatore – per come la vediamo noi – potrà mai pretendere d’ergersi a catalizzatore del nostro amore. Noi amiamo quella maglia, non chi la indossa in usufrutto. E per quella maglia, per quei colori, per cui non ci sono categorie o distanze che tengano, manteniamo la calma, evitando di lasciarci trasportare dal carro allegorico delle speranze frustrate. Quanto detto resta e non s’eclissa. Un successo di Zeman, magari la tanto agognata B, sarà il benvenuto, quest’anno. Una retrocessione non cambierebbe di una virgola il nostro rapporto. Siamo immuni ai sogni occasionali, fortunatamente. Immuni alle mode. Immuni a Sky che spedisce inviati, alla Domenica sportiva e a Studio aperto che confezionano servizi sul ritiro dell’Us, persino a Monica Vanali che invece di chiedere a Zeman del Gela e del Barletta gli domanda di Mourinho, della Roma e di chi vincerà il campionato. Di A. In quindici anni di silenzio ci siamo ricostruiti un’identità dissociata dai media. E non abbiamo alcuna intenzione di barattarla per una effimera stagione di riflettori.
Lobanowski 2
Da non perdere del Collettivo Lobanowski “Juve o Milan? Meglio il Foggia”, riedito da poco da Bradipolibri.