Letteratura Sportiva

Nel calcio non si prega – Blatter e il suo calcio globale

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Con l’ultima infelice uscita che riguarda il divieto della preghiera sui campi da calcio, Josep Blatter ha chiarito ancora una volta il suo progetto finale: un calcio totalmente globalizzato senza nessuna dimensione culturale e particolare che può creare distanze tra i popoli (anche se dovremmo dire il popolo-mondo). Il massimo del calcio per Blatter sono 22 giocatori dalla stessa conformazione fisica (un po’ come i nuotatori) che hanno le medesime usanze e tradizioni ufficialmente sponsorizzabili, con personalità annullata di fronte all’applicazione delle regole da parte degli arbitri e senza il minimo comportamento che possa creare ambiguità e far nascere una distanza di senso. In fondo cos’è pregare? Oltre al desiderio spirituale di congiungersi e condividere con il Dio che ci ha dato la vita (Dio che ovviamente può chiamarsi come si vuole), è anche un’espressione culturale fondata su tradizioni e insegnamenti. Pregare è anche appartenere a un popolo, ad una storia, ad un universo di significati che per Blatter non sono esportabili e per i grandi brands che stanno dietro al calcio mondiale non sono assimilabili all’interno di un discorso di profitto. Blatter si pone due domande molto semplici: “Ma un siriano capirà fino in fondo il valore della preghiera di Kakà e Lucio dopo la vittoria della Confederations Cup? – La Coca Cola può sfruttare questi atteggiamenti in mondovisione al massimo dello share per le sue attività di marketing?”. Chi ci salverà dal baratro del calcio fac-simile? Continuamente nell’occhio del ciclone e indicati come modello negativo a prescindere, sono proprio i calciatori gli ultimi baluardi del calcio “glocale”. Sono proprio loro che non vogliono serializzarsi e rispettare le regole del business “smile” che Blatter vuole creare intorno al prodotto calcio. I calciatori giocano come vogliono, protestano, sono cattivi e rispettosi, non ci stanno a perdere e in campo si comportano secondo i suggerimenti dell’animo e della passione più che della ragione. Per quanto riguarda il caso del momento, le parole più giuste le ha pronunciate Edio Costantini, presidente della Fondazione Giovanni Paolo II per lo sport, che ha parlato parlato di calcio laicista, sottolineando che senza valori nello sport divede impensabile evitare violenza, doping e razzismo. Discorso che non fa un grinza e di una stringente logica. Io direi di più: come evitare le brutture dello sport se gli unici valori diventano la performance televisivamente neutra (senza tempi persi, nel pieno ritmo del flusso stream-advertising), la fisicità controllata e omologata e il gioco meccanico?

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