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Un cavallo è un cavallo. Un cavallo è un animale. Un cavallo è uno strumento di lavoro. Un cavallo è un essere vivente di cui prendersi cura.
Dopo aver letto il libro di Nicola Melillo, Io Ribot, è evidente qualcosa a cui io personalmente non avevo mai pensato, forse per un rapporto troppo mediato con il mondo animale: un cavallo è un atleta, con le stesse esigenze e gli stessi ritmi dell’uomo atleta. E, a pensarci bene, considerare un animale come atleta lo ricopre della dignità massima, lo nobilita e, cosa fondamentale, ti fa vedere tutti gli animali, anche quelli che atleti non sono, con una considerazione diversa.
In tutti questi anni di ragionamenti sull’altro, nuovi atteggiamenti sociali che abbiamo per fortuna sempre più fatto nostri nei riguardi di chi è diverso (per pelle, religione, comportamenti sociali, ecc.), abbiamo messo in secondo piano la costruzione di un nuovo rapporto da instaurare con il mondo animale, che sta perdendo ormai irrimediabilmente il vecchio legame produttivo e strumentale che aveva con il mondo degli uomini.
Siamo all’alba di un nuovo modo di rapportarsi con gli animali che non possono essere più considerati semplicemente strumenti di lavoro, fonti produttive, passatempi.
Questo libro mi ha aperto gli occhi su queste considerazioni perché iniziare a pensare gli animali come atleti apre una nuova fase del nostro rapporto con loro, in cui i concetti di condivisione e collaborazione, relazione parificata e gestione delle esigenze comparate divengono i punti cardine.
Dal punto di vista strettamente letterario, il libro di Nicola Melillo è davvero una novità: dare la parola ad un cavallo, anzi al cavallo più famoso della storia del galoppo è una bella trovata narrativa e un modo sensato di arrivare ad uno scopo ben preciso: scrivere di un cavallo che ha vinto tutte le gare della sua carriera, ma anche di uno dei più grandi atleti della storia con la sua fantastica storia da raccontare.