“LA BOMBA. LO SPETTACOLO DI ALBERTO TOMBA”. INTERVISTA A GIUSEPPE PASTORE

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Hai fatto un gran lavoro di archivio, anche su fonti secondarie rispetto allo sport. È un approccio simile al trellinismo, ma io mi spingerei anche a parlare di pastorismo, perché l’identità è chiara. La scrittura per questo libro sembra davvero una sciata con tanti ostacoli che riesci a superare. Pensi che rispetto ai libri che riguardano il Milan tu abbia usato uno stile differente, più maturo?

Ti ringrazio per il paragone con Trellini che mi onora, essendomi ispirato a piene mani a “La partita” per i due libri sul Milan. Qui, visto che l’argomento mi era molto meno familiare (anche e soprattutto dal punto di vista tecnico), ho voluto e dovuto procedere coi piedi di piombo, non dando per scontato nulla e verificando due-tre volte ogni dato e ogni valutazione. Non penso, però, che lo stile sia cambiato molto, anche se certamente applicarlo a una disciplina così ostica e di nicchia è stata una bella sfida.

Tomba è stato uno dei primi a far entrare nel suo staff uno psicologo, il professor Cuizza. Hai capito come è arrivato a questa scelta molto nuova per il tempo?

Un segno di quanto fosse avanti Tomba e l’équipe che lo aiutava, anche in rapporto al miglior sport italiano dell’epoca. Tomba c’è arrivato individuando nella pressione mediatica un elemento del tutto nuovo e imprevisto nella routine quotidiana del Grande Atleta: qualcosa che per esempio l’ultimo grande atleta individuale italiano, Pietro Mennea, non aveva dovuto minimamente sopportare. Era proprio la testa, l’aspetto mentale che gli aveva fatto difetto nella prima estate da fenomeno (1988), ed è lì che con grande lucidità ha capito di dover intervenire.

Ha portato lo sci nello show-biz. È rimasto qualcosa di quel tempo?

Come il Motomondiale con Valentino Rossi, anche lo sci ha sofferto molto l’assenza di un divo planetario – del resto rimarrà per ovvi motivi una disciplina aperta a non più di una decina di Paesi in tutto il mondo. La tendenza naturale degli italiani a innamorarsi del glamour, e la tendenza naturale del resto del mondo a innamorarsi degli italiani, hanno fatto il resto. È un tempo che non tornerà, come non torneranno gli anni ’80 e ’90, anni di entusiasmo ingenuo ma anche molto meno rispettosi dell’atleta e della sua privacy rispetto ai tempi di oggi.

È stato lui a inventare quello sci oppure era solamente il tizio giusto al momento giusto?

Lui di sicuro ha fatto tutto da solo, aiutato certamente da una famiglia agiata ma boicottato da una Federazione che con lui era stata molto miope. Sull’aspetto tecnico, disse già tutto all’epoca Mario Cotelli (fedelmente riportato nel libro): era uno stile unico e inimitabile che costrinse lo sci a migliorarsi, caratteristica tipica di pochi selezionati atleti. Ma è anche vero, come dici tu, che si trovò al posto giusto nel momento giusto: lo sci aveva bisogno di lui e lo sfruttò anche oltre le umane possibilità, una specie di Michael Jordan del Circo Bianco – ma trattato molto peggio a livello di calendari ed esigenze.

Con lui abbiamo anche trovato un “gusto per la superficie” degli sportivi, che prima poche altre volte si era visto. Come c’è riuscito, solo con l’essere quel personaggio?

Non si era mai visto perché erano altri tempi, più spensierati, più rilassati. Non trascurare anche l’effetto delle tv private, che amplificò l’immagine di Tomba anche oltre la paludatissima RAI: il lavoro che in questo senso fece TMC con Gattai fu enorme, paragonabile alla connection Meda/Valentino. E poi lui ci mise moltissimo del suo: spontaneo, senza troppe riflessioni, a volte senza nemmeno pensare, con il gusto innato della “cazzatella” che involontariamente intercettava esattamente quello di cui avevano bisogno in quel momento i giovani italiani.

Il 1989 fu orribile e da quel momento nasce il team personale. È questa la vera svolta futuristica di Tomba.

Visionario col senno di poi, trentacinque anni prima di Sinner. Lì fu brava la Federazione a esaltarne la differenza, invece che deprimerlo e mortificarlo in allenamenti “normali” con compagni “normali” che oltretutto avrebbero sofferto anche loro la competizione interna con un fenomeno del genere. E non ci sarebbe stato Tomba senza Thoeni.

Dopo una vittoria nel 1990, Cannavò scrive: “Alberto non illuderci”. Perché lo amavamo così tanto, eppure avevamo così paura che finisse tutto in una bolla di sapone?

Tipico anche dei tempi di oggi, no? Sinner si ritira a Shanghai con i crampi e tutti a chiederci cosa gli succede, perché sta sempre male, se tornerà numero 1. Siamo un popolo molto ansioso – il che deriva, immagino, dal nostro essere mammoni – e il minimo contrattempo a una persona a cui vogliamo bene ci angustia terribilmente. Per fortuna, almeno nel caso di Cannavò, non c’era mai traccia dell’invidia e dell’astio che invece si ritrovava in altri articoli di commento a una sua sconfitta o altri tipi di “colpi di testa”.

Della seconda discesa dello Slalom Speciale di Albertville 1992, scrivi: “Bisogna viverla, senza respiro, scacciando / ogni mezzo secondo il pensiero terribile che l’uomo che cammina / sui pezzi di vetro, hai visto mai, potrebbe anche ferirsi. / Non oggi”. Ho messo quegli slash perché può passare per poesia, senza sfigurare. Niente, era semplicemente un complimento che volevo farti, puoi rispondere anche solo “Grazie”.

Ti dico la verità: considero Albertville 1992 il punto più alto della carriera di Tomba e una volta mi sono ritrovato a guardare su Youtube col groppo in gola la sfida con Girardelli in gigante. Ti ringrazio e sono onorato delle tue parole!

L’essere diverso dal suo mondo lo avvicina a noi, animali da divano o calcetto. È servito anche questo per la popolarità?

Sì, soprattutto il suo essere così arci-italiano, quasi italiano da barzelletta (e non solo perché era carabiniere). C’erano tifosi che salivano da Messina, da Bari, città dove non hanno quasi mai visto la neve, perché riconoscevano in lui questo slancio vitale da italiano “all’estero”, in mezzo a tanti svizzeri, austriaci, tedeschi taciturni. Erano anni in cui emigrare all’estero, ma anche dal Sud al Nord, era un fenomeno molto più traumatico rispetto a oggi, e dunque secondo me un italiano “alieno” nel suo mondo aveva qualcosa che parlava direttamente al cuore di molte persone.

Eri così dentro al tema e al personaggio perché, secondo me, le sue discese erano come dei film, pieni di colpi di scena. Questa era la sua vera caratteristica e la sua forza?

Sì! Rispetto al pur straordinario Sinner, di cui è facilmente prevedibile l’esito del 98% delle sue partite, lo sci – in particolare lo slalom speciale – possiede anche questo aspetto da thriller in sospeso fino all’ultima porta: la prima medaglia mondiale di Tomba, a Crans Montana 1987, arriva proprio in quel modo. Quindi l’aspetto spettacolare, la componente di entertainment delle sue gare, è stato fondamentale per la sua popolarità. Con gli occhi dell’appassionato di sport del 2025, rimango poi sempre colpito da quanto fossero scarni e mal ripresi gli eventi sportivi di quarant’anni fa. Ci accontentavamo veramente di poco.

Scegli una vittoria o una gara per farlo capire al volo da chi non lo ha mai visto.

Al di là dei grandi trionfi che tutti conoscono, scelgo il numero da circo con cui taglia il traguardo nella prima manche del gigante di Veysonnaz 1993: tombismo in purezza, illogico e anti-tecnico, ma funziona. Non aggiungo altro perché non voglio rovinarvi la sorpresa e la meraviglia quando lo guarderete su Youtube.

A me è piaciuta molto la scelta di non dimenticare nessuna gara. Il rischio era creare un listone sonnolento, ma con ritmo e intermezzi sempre diversi sei riuscito a farci stare tutto. Perché hai scelto di parlare di tutte le gare di Tomba, senza saltarne nemmeno una?

Perché Tomba era Tomba tutto l’anno, esistono messe più importanti di altre (le Olimpiadi, la Messa di Mezzanotte del 24 dicembre…) ma la vita del fedele è scandita da appuntamenti regolari. E poi lo stesso Alberto era, è molto affezionato a tutte le sue vittorie, e per me non è casuale che abbia deciso di chiudere di colpo una volta raggiunta quota 50. Ha un’inclinazione naturale per i numeri e per i calcoli, quella cifra tonda deve avergli trasmesso un senso di grande soddisfazione.

Per colpa del calcio, gli atleti italiani passano per calcolatori e difensori delle loro energie residue. Però poi con Tomba, Baggio, Pantani, quelli che davvero restano nel mondo sono quelli che osano per talento e forza. Non è strano?

No, non è strano: siamo pigri e non faremmo uno sforzo più del necessario (io per primo!), quindi sentiamo un senso di comfort quando ritroviamo quest’attitudine in uno sport di squadra, ma ammiriamo sinceramente l’eroe solitario che getta il cuore oltre l’ostacolo, chi gareggia sul dolore, chi si mette a rischio per un’idea sia pure folle. Anche se non vorremmo mai nella vita essere lui!

Chiudi con una riflessione di Ghedina molto interessante sul come poter vivere tutta la vita (Tomba chiude la carriera a 31 anni) da ex. Pensi sia un uomo ormai in pace?

Mi piace pensarlo ma non ne sono del tutto sicuro: per me è un quasi-sessantenne che non ha più molto di cui preoccuparsi, e questo è sicuramente un bene, ma come un supereroe a riposo rimpiange i tempi dell’azione, perché mai come in quel momento si è sentito vivo. Se fossimo in un (brutto) film americano, potrebbe tornare in gara da un momento all’altro tipo Brad Pitt in F1. Per fortuna siamo nella realtà.

Il mio ricordo di Tomba è: Interno giorno, domenica a pranzo: io, la mia famiglia, la braciola con lo stuzzicadente conficcato, forse una pasta, la delizia al cioccolato, ma dopo. E Tomba in televisione.
È rimasto così tanto anche perché è diventato un’esperienza, oggi ricordata?

E’ anche il mio ricordo, il pranzo della domenica mischiato a immagini confuse in diretta da Garmisch o Kranjska Gora. È il simbolo di uno sport analogico in cui la Gara era a quell’ora su quel canale, o era persa per sempre: ascolti folli, che oggi non fa nemmeno la Nazionale di calcio (parlandone da viva). Ma per me è rimasto anche perché è sparito, si è dedicato a coltivare – più o meno volontariamente – una specie di oblio, come Roberto Baggio, o Lucio Battisti.