Domenica 22 febbraio, Foggia-Pistoiese 1-1
“Ci vuole un attaccante di sfondamento, uno che butti la palla dentro”, gracchia una voce dal televisore. La casa si impregna. Ed è un refrain sanremese. Ciclico, ridondante, codificato. Un luogo comune agghindato a bandito, acquattato all’angolo d’ogni mezzo passo falso. Pronto a pugnalare il silenzio, a sovrastare i fischi. Pochi attimi. Poi lo spettatore al telefono, male equalizzato dai tecnici di Telefoggia, si fa rosso d’ira. Il suo timbro vocale s’impenna in un crescendo arioso: “Questa società ci sta prendendo per i fondelli!”. Che gente. Non vengono allo stadio perché piove e fa freddo e poi s’arrogano il diritto di parola. Di sicuro non hanno letto quanto diceva il Presidente Mao in proposito: solo chi fa, ha diritto di critica.
Re-wind. Sabato 21 febbraio
C’è stata una frana. Una gelata, secondo altri, un guasto al locomotore, un’interruzione sull’intera linea adriatica. O tutto questo assieme. O niente del genere. Gianluca Morozzi è partito presto dalla sua Bologna. L’Eurostar era atteso alla banchina alle 13,47. Ma, al momento, il display della stazione aggettiva il ritardo come “indefinibile”. Sostiamo, basiti. È tutto pronto dall’una: le teglie di pasta, il pavimento traslucido, il comitato d’accoglienza. Scende, il Morozzi, bell’apposta a parlarci del suo mestiere di scrittore-tifoso, delle trasferte a Leffe e dello zio Savoldi, che ha reso celebre in un libro di qualche anno fa. Ma è fermo a Termoli da più di un’ora e mezza. Senza spiegazioni supplementari, senza trasporti sostitutivi. Inganna l’attesa salvando mici in trappola sui bastioni. Non ci restano molte alternative: saltare in macchina e risalire i cinquanta minuti d’autostrada che ci separano dal peregrinare senza meta dell’ospite. Prima che il National Geographic lo opzioni. Il rombo dei motori, il piede sull’acceleratore. Incredibile. Era tutto pronto dall’una, non possiamo fare a meno di pensarlo. L’intoppo, lo sguardo ostile e strabico della malasorte, in agguato come il fatalismo dei pellegrini. Non dipende da noi, ma questo dettaglio dilata la voglia di fumare nervosamente, piuttosto che diluirla nell’acido dell’insondabile, eterno alibi da sconfitti. Ci perdiamo in un reticolo di sensi unici. Lo troviamo sotto la pensilina, con meno capelli di quanti gliene attribuivamo in quarta di copertina. Tra mezz’ora scende in campo il Bologna, al “Dall’Ara”. C’aveva provato, il povero Gianluca-tifoso, a deviare il corso del fiume in piena. Quando aveva fatto dire al Morozzi-scrittore che forse era meglio rinviarla, questa data meridionale del tour, vista l’assurda concomitanza con l’unico anticipo alle 16 a cui gli sarebbe capitato d’assistere in tutta la stagione. Invece niente. La letteratura dà, la letteratura toglie. L’andatura costante a 120kmh permette una prima conoscenza reciproca. Quando Giuseppe gli chiede di Nello Aldo Cusin, per poco non si soffoca con la tosse. Quando gli raccontiamo di Sant’Anastasia, di Gualdo Tadino e della Juveterranova; quando rammentiamo l’incrocio d’autogrill che li trascinò in A mentre noialtri andavamo a perdere la B allo “Zini”, sorride dolente e ricambia parlandoci del Fanfulla, del Palazzolo e della Rondinella. Ma non c’inganna. L’iride bifronte lo rende sereno: come uno che ha vissuto l’emarginazione, si, ma adesso ne è fuori. E parlarne non incide sulle coronarie. Come un emigrante che ha conosciuto, per qualche anno, stenti e sacrifici. Ma poi s’è aperto una bottega da orologiaio sul lago di Lugano. E mostra le ferite come stimmate assorbite, di cui andare fieri nelle sere d’inverno, al focolare. Noi, invece, negli stenti sguazziamo da dieci anni. Compiaciuti come lontre da argine fangoso. All’arrivo, il Bologna sta inchiodando l’Inter sullo 0-0. Nell’intervallo, l’afosa accoglienza sudista si trasforma in pasta al forno, lasagna, polpette. A volte mi capita di immedesimarmi negli ospiti nordici. E, mentre mangiano, mi vien quasi voglia di affiancarli per garantirgli che noi, normalmente, non siamo così. Dirglielo di botto, a bruciapelo, prima che possano farsi un’idea. Una qualunque.
Jvan Sica non è settentrionale per niente. Arriva da Salerno, via Benevento. Capirebbe, ci capirebbe, se il suo Intercity si decidesse a giungere. Ma il Tavoliere è un buco spazio temporale, quest’oggi, un gorgo d’antimateria. E la linea ferroviaria è bloccata anche sul versante occidentale. Un’ora di ritardo accumulata dal Sannio a qui. Quasi un record, di quelli da vanto. La darwiniana selezione della specie si compie attorno al desco. Gli interessi più nobili scacciano gli istinti primari: Gianluca guadagna una seggiola sotto la tv. E, un po’ per la tensione, un po’ per le dimensioni del pasto già ingurgitato, lo stomaco gli si chiude. Partecipa, silente, in religioso raccoglimento. Gli altri gli vorticano attorno senza un perché specifico. Altra immedesimazione: dev’essere orrido, spaventevole, seguire la propria squadra su Sky, mentre in direzione dei quattro punti cardinali, è un continuo rimescolio di mascelle, un lavorio indefesso di mandibole, un pullulare osceno di commenti osceni. Ed inutili. La simbiosi giunge ad un punto di non ritorno quando l’Inter passa in vantaggio. Cambiasso realizza, e un paio dei nostri esultano, sconciamente. Ma senza malizia (il che è peggio). Per la marcatura valida ai fini del Fantacalcio. Non reggo. Esco a parlare d’altro. Jvan, che nel frattempo è arrivato già mangiato, non parla molto. Deve carburare. Ci scambiamo opinioni sull’ “Arechi” e imbastiamo letterature comparate col “Vestuti”. Il Bologna pareggia, incredibilmente. E Gianluca scatta in piedi. Esulta col pugno, distintamente, da gran signore. A vederla dalla vetrina sporca, quell’accozzaglia di umori in contrasto, di gesti scoordinati e diversissimi, sembra una gabbia di matti. Mi sento uno scolaro in visita guidata. Prendo coraggio, faccio un paio di passi all’interno, sorseggio vino rosso di cantina. “Balotelli!”, urla Roberto. Che, manco a dirlo, ce l’ha al fantacalcio. Ed è un urlo sconcio, fuori luogo. Cristina ha detto che non dimenticherà mai la faccia di Morozzi in quel preciso istante. Io, fortunatamente, non la vedo. Ma so, con certezza, che a parti invertite, uno qualsiasi dei nostri avrebbe fatto scattare la più disdicevole delle risse. Buttarla in gazzarra, per recuperare nella mischia l’onore perso sul campo.
Forward. Domenica 22 febbraio
L’accento di Jvan è un problema. Ha deciso che vuole essere dei nostri allo “Zaccheria”, sugli spalti della Sud, e condividere con la ciurma ogni attimo della partita con la Pistoiese. Che già si preannuncia storica. Come, del resto, ogni gara con gli arancioni (…). Noi siamo contenti, finanche lusingati, dalla sua proposta. Ci fa piacere, certo. Solo che la Sud è un (meraviglioso) serraglio di folli integralisti. Tra cui ci saremmo anche noi, oltretutto. Jvan ci tranquillizza: “Ma io non tifo Salernitana – fa, con voce pacata, come a spezzare la tensione – tifo Napoli”. Il silenzio preoccupato muta in accorata partecipazione. “Facciamo che non dici niente e lasci parlare noi”. Accetta di buon grado. Le grate del prefiltraggio, quelle più esterne, quelle che si vorrebbero stabili – a ricordarci la nostra condizione di detenuti in attesa di giudizio, o di imputati a piede libero – sono finalmente al loro posto. Un tributo alla società dello spettacolo. Dentro soffia in piena faccia un vento gelido, da morsa. La curva, che è semideserta a venti minuti dall’inizio, non si riempirà, ormai è certo. Meglio stringersi, compattarsi. Di fronte ci sono nove pistoiesi. È un merito esserci, sempre, e gli va riconosciuto. Un minuto di raccoglimento per Candido Cannavò. Poi si parte, in campo e fuori. Due ricordi si sovrappongono. Quello di mio cugino Carmine, avellinese silente in curva Nord mentre la sua squadra veniva divelta dal Foggia di Baiano e Signori, e un vecchio Foggia-Reggina di B, con la pioggia battente e la tifoseria al piano di sotto. C’era un gruppo di inglesi, quel giorno, a vedere Zanchetta insaccare su punizione. Ci si diverte tanto, quando piove o tira vento (come recita un celebre mottetto). Si salta, ci si spinge, si canta. Quel tanto che basta ad intorpidire le menti, a fissare il proprio sguardo interiore sul pezzo di tribuna che occupi. E farti dimenticare, se ci riesce, che proprio il motivo che ti spinge a far festa – il gelo – oggi ha spinto tanti nostri eroici concittadini a preferire il divano. A seguire lo show mal microfonato di Telefoggia con la recondita speranza che tutto vada male, torni ad andare male, per comporre i numeri del telefono fisso e dire al conduttore che con questa società non andremo da nessuna parte. Uno sfogo morettiano, senza i girotondi. Perché anche i girotondi, diciamocelo, prevedono troppo movimento. Questi non ci sono e basta. In tanti invece ci vengono, ma non saprebbero spiegare ad un tribunale il perché. Braccia conserte, sguardo vitreo a seguire l’azione, scatti repentini a destra e a sinistra per scansare la bandiera che sventola qualche fila più sotto o più di lato, braccino teso o a volo di farfalla a spiegare all’amico che Coletti doveva aprire e Lisuzzo chiudere. Antonio dice che mi vede dare le spalle al campo, fregarmene della partita. Si sbaglia, non è vero che non mi interessa. Ma, a trentadue anni suonati, ho deciso di non far dipendere tutto dai nostri e dai loro undici. C’è un’altra partita, sugli spalti, importante anche aldilà del valore di funzione, che deve essere onorata. E poi certa gente, che presenzia e mugugna, mi appare offensiva, più che inutile. Non dico cantare, per carità… Non dico spingersi e crollare sulle note di uno stornello… Non dico perdere la voce… Ma almeno sostenere: ognuno a modo suo, come gli viene. Invece, mentre il Foggia attacca sotto di noi ed entra in area sei volte nei primi cinque minuti, sembriamo un mondo a parte, circondati dal nastro giallo delle scene del crimine. Limite invalicabile. Sui corner, sui calci da fermo, qualcuno prova ad oltrepassare il limbo elettrificato ed immaginario. E si unisce al canto. Poi il corner finisce tra le mani del portiere, la punizione sfila sul fondo, e tornano a chiudersi in sé stessi, nella loro concezione autistica della partita. Lo speaker sulle transenne ricorda la curva degli anni Novanta, per spronare i reticenti. Dice anche una cosa molto brutta. Dice: “Dove sono i vecchi? Quelli che si sono fatti la serie A?”. Vecchio, qui, è un bel complimento, di solito. Come tra gli alpini. Ma una parte di me, che la serie A se l’è fatta, ci rimane male. Il campo è pesante, i restii non si lasciano commuovere e coinvolgere. Non vedo il fallo da rigore che porta gli arancioni dal dischetto. Vedo che segnano. L’autore del gol va sotto la curva. I tifosi toscani lo salutano superficialmente, lo allontanano con un certo fastidio. Probabilmente stavano giocando a tressette e quello li ha distratti. Ed ora li sta disturbando oltremodo.
E Jvan in tutto questo? Arrivato nel giorno più freddo dell’anno, nel giorno del record negativo di presenze, becca il gol dell’ultima in classifica con stoica rassegnazione alle sfighe. E c’è di più, c’è di peggio. Una specie di ispettore di curva comincia ad aggirarsi tra le linee dell’esercito abbioccato e deluso. Afferra dal cravattino i fanti scoraggiati, li scuote, li percuote, fino a farli dondolare avanti e indietro, come pupazzi di pezza: “Allora? Volete cantare o no?”. Il tono non è conciliante. Lo speaker fa partire Noi non molleremo mai, la versione sulle note di Go West dei Pet Shop Boys. E l’ispettore prosegue il suo tour, a sincerarsi che ogni labiale corrisponda. Erano anni che non succedeva, che non c’era bisogno di cotanto drastico provvedimento. Proprio oggi che c’è Jvan. Eppure Jvan canta, con la massima naturalezza, senza perdersi d’animo, senza risentire delle forzature. Almeno, così sembra. Il pareggio giunge nella ripresa, ancora su rigore. E alla fine piovono i soliti sparuti fischi, dagli angoli del silenzio. Ma non è quello che conta. Oggi mi ha impressionato altro. E cioè che erano anni che non mi soffermavo a pensare alla serie A, a cos’era la curva a quell’epoca. Me l’hanno fatta risalire come un gin-lemon, rancida come un conato di maionese. Idolatrata, mitizzata, sopravvalutata. Certo, diecimila voci sembrano più possenti di centocinquanta. Ma non c’è da rimpiangere niente. Una diserzione di novemila e passa uomini non è cosa da ricordare con nostalgia, nel bilancio di una guerra trentennale come la Guerra dei Trent’anni. O centenaria, come quell’altra. Ci sarebbe da scomodare Shakespeare, il suo Enrico ad Azincourt, il suo giorno di San Crispino e Crispiano. Ma quel pistolotto poetico l’hanno usato tutti, dai fascisti all’antimafia. Allora, meglio sorvolare. Scriviamo sulle nostre porte: Niente nostalgia. E andiamo avanti, please.
Jvan è partito alle 18,25, dal binario 4. L’Eurostar, di quelli bianchi e rossi, un po’ vetusti, un po’ comici, un po’ Treno Ok di una volta, ha fatto il suo placido ingresso in stazione, planando come un Pendolino senza pendolo. Il rituale d’ogni arrivederci, un abbraccio, una raccomandazione scherzosa, una battuta. La bandiera ancora in mano, residuato del pomeriggio. Mattia, che ad Jvan l’ha preso proprio a benvolere, dice che lo si potrebbe salutare sventolando. Si ride. Dovessero esserci dei baresi a bordo, lasceremmo il nostro salernitano alle prese con una quantità di contraddizioni difficilmente esplicabili in un’oretta di viaggio. Lasciamo perdere e lo guardiamo salire. Sulle scale che portano al sottopasso, però, decidiamo che la bandiera può essere aperta. Così, giusto perché se hai una bandiera è bello sventolarla. Una famiglia – padre, madre ed un bambino – sta per imboccare la nostra stessa scalinata, solo in senso opposto. Ci viene incontro, distrattamente. Poi si accorgono della nostra presenza. Ed è un attimo. Il padre allunga la sua mano protettiva sul bambino e sulla consorte. E l’intero gruppo si schiaccia al muro, come si fa quando c’è un terremoto da far trascorrere, e ci si accalca sotto gli stipiti delle porte. Ma noi siamo in tre, stiamo ridendo, e c’è una bandiera che fa avanti e indietro. Capisco quel che sta succedendo ed allargo lo sguardo. Attorno a noi, i passeggeri scesi dall’Eurostar al binario 4 sono imbarazzati. Se ci siamo noi, è probabile che ci siano altri tifosi, altri “ultras”, nei paraggi. E la cosa pietrifica diversi bravi viaggiatori, li rende confusi sul dopo, immobili nel durante. Sguardi obliqui, qualche sussurro. Il tutto per una bandiera. Eccoci, faccia a faccia, col mostro mediaticamente costruito. Questa è la gente che s’abbevera al video, che ha imparato a temere, a tremare di questa (e di ogni altra) difformità comportamentale; questa è la brava gente in buona fede che non può più fare a meno di ritrarsi, se non proprio fuggire, alla vista di ogni pericolo indotto. Che pensa male di tutti solo perché qualcuno ha spiegato che così si fa. Un po’ li capisco, un po’ li detesto. Mattia, invece, vorrebbe prenderne a ceffoni un paio, così, presi a casaccio, a mo’ di sveglia. Giusto per confermare, nel rovesciamento dei valori, il senso di un luogo comune. Meglio lasciar perdere e tirare avanti. Dietro di noi c’è gente che sbircia ancora verso i binari, che si attende di veder spuntare dal nulla e all’improvviso altre duecento teste calde, e nel frattempo si esercita nel fingersi invisibile. Meglio andare. Lasciare l’atrio e liberare una stazione prigioniera dei suoi fantasmi. Che poi sono i fantasmi di un intero Paese.
Un bel racconto e una scrittura molto gradevole.
Devo trovare il libro del collettivo.
Non sarà un’impresa facile, ma già so che ne resterò soddisfatto 🙂