In base anche alla tua formazione, volevo sapere come e perché si potrebbero trovare degli agganci tra la filosofia e la parabola calcistica e umana di Lentini?
A questa domanda ritengo che si possa rispondere sotto almeno due punti di vista. Prima di tutto Lentini è uno dei simboli di un calcio che veniva fatto perché piaceva il gioco in sé stesso. Chi aspirava a diventare professionista e, poi, riusciva a realizzare questo sogno, lo faceva non per i soldi o per il contorno, ma perché amava il calcio. C’era quindi, a mio avviso, un maggior coinvolgimento emotivo nell’essere calciatore, nel non vedere questo solo come un lavoro dai facili guadagni, ma come un prolungamento dell’infanzia, quando si giocava con gli amici per puro divertimento.
Per quanto riguarda invece il secondo aspetto, la storia di Lentini è quella di un uomo che ha avuto una seconda possibilità, che è risorto dalle proprie ceneri senza farsi domande sul cosa poteva essere senza l’incidente, abbracciando invece la sua ‘seconda vita’ per quello che aveva da offrirgli.
Quello che impressionava al tempo, così come in parte anche ora, era il suo corpo molto moderno. Cosa aveva di così futuristico?
Tutti gli ex compagni di squadra con cui ho parlato mi hanno confermato come Lentini avesse doti atletiche straordinarie. Un giocatore che era quindi il prototipo del calciatore anni Novanta, fisicamente impattante. Una fisicità che gli avrebbe consentito di avere successo anche oggi.
Anche il ruolo era spurio e ancora una volta uso l’aggettivo moderno. Possibile che in quel momento, corpo e ruolo non siano stati capiti fino in fondo dagli allenatori del tempo?
In realtà venne compreso bene da alcuni ottimi tecnici come Emiliano Mondonico e Arrigo Sacchi. Quest’ultimo attese fino all’ultimo il completo recupero di Lentini per portarlo a Usa 94 cosa che, come noto, poi non accadde. I problemi al Milan furono dettati dall’incidente e da una nutrita concorrenza in avanti.
Off topic, perché lo accenni nel libro: secondo te l’idea che ci siano gli allenatori di carriera danneggia il calcio italiano?
Io penso che un allenatore debba mettersi al servizio della squadra e del materiale umano a sua disposizione. L’obiettivo è migliorare il giocatore, così da migliorare l’intera squadra. Nella storia del calcio forse, a volte, l’ego di qualche allenatore è venuto troppo fuori. Non mi riferisco a chi ha lavorato con Lentini, parlo in generale. Ricordiamo comunque che fare l’allenatore è un mestiere difficilissimo. L’allenatore è sempre un uomo solo, soprattutto quando perde.

La sua figura alla fine è rimasta schiacciata sui soldi spesi da Berlusconi per averlo al Milan?
Non penso, la pressione mediatica era sì molta ma, a mio avviso, non paragonabile a quella che avrebbe subito oggi e Lentini comunque la resse bene.
Ha perso comunque delle occasioni prima del turning point dell’incidente, ad esempio in finale a Monaco dove fu inesistente. Secondo te alla fine dei conti era pronto/adatto a quel livello?
Per me sì. Resto convinto che, senza l’incidente, Lentini sarebbe diventato un giocatore di livello mondiale. Una partita storta non mi fa cambiare il giudizio complessivo sul Lentini calciatore.
Perché dopo la panchina del Prater molla in maniera così evidente e pubblica?
Il colpo psicologico per non essere stato inserito nell’undici titolare è stato grande, soprattutto per un calciatore che si sentiva pronto per quel tipo di partita. La finale poteva essere per Gigi l’occasione perfetta per mostrare a tutti di aver superato definitivamente l’incidente.
Soprattutto per gli standard attuali era molto giovane quando ha scelto un calcio di secondo e terzo livello, scegliendo di giocare semplicemente per il gioco rispetto a tutto il resto. Secondo te perché ha fatto questa scelta così drastica?
Credo che in Lentini sia sempre prevalsa l’idea ludica del calcio: giocare per divertirsi e divertire, senza farne una questione di categoria. Anche per questo ho concluso il libro sottolineando come Gigi, in fondo, sia uno di noi, nato col sogno di giocare a calcio fin quando possibile.
