Il tuo libro è pieno di scene, l’occhio e l’esperienza ti hanno guidato la mano. La più bella per me è quella allo Stadio Olimpico, perché è fatta di sguardi che per forza di cosa non si incrociano e pensieri che non si conoscono. Maradona perde il Mondiale e piange in mezzo al campo. Carnevale dagli spalti lo guarda e capisce che l’esperienza a Napoli è finita. C’ho preso (sul fatto che hai spesso ricostruito una vita in tante scene) o mi sono fatto un viaggio leggendo il tuo libro?
Hai colto nel segno. Il mio approccio alla scrittura, molto visuale, mi sembrava adatto a raccontare la storia di un calciatore, che vedo sostanzialmente come un produttore di immagini. Una strana forma di attore iperrealista, chiamato a riscrivere ogni volta lo stesso imprevedibile copione, con le sue giocate. Protagonista di una vita spettacolare anche fuori dal campo. Misurandosi con la vita da film di Andrea Carnevale, osservato nella coralità umana e drammaturgica che lo ha circondato, ho pensato di costruire una tessitura di primi piani, campi lunghi, montaggi paralleli, flashback e flashforward. Cercando, tuttavia, di non appiattire il linguaggio, di rispettare la forza letteraria delle parole. Spero di esserci riuscito.
Scusa l’autoreferenzialità: ho visto Carnevale giocare dal vivo in un Salernitana-Pescara nel 1995. Era il migliore di tutti, una calamita per tutti i palloni lanciati in avanti. Perché smise?
Andrea Carnevale, nelle sue ultime stagioni pescaresi, percepiva di essere ancora un giocatore prezioso, per classe e carisma. Decise di appendere le scarpe al chiodo perché sentiva che una stagione della sua esistenza, scandita dal nomadismo da calciatore, andava chiusa. Avvertiva sempre più forte la necessità di un contatto quotidiano con moglie e figli. Purtroppo, il suo matrimonio si concluse poco dopo il suo addio al calcio.
Il fratello Germano, che si abbandonerà: sono due facce della stessa medaglia o il fratello che non è riuscito a tirarsi fuori dalla tragedia vissuta?
Il rapporto tra Andrea e Germano è struggente, letterario nel senso più intenso del termine. Germano, minore per età, sembra tra i due il predestinato, quello baciato dalla naturalezza del talento, in grado di bruciare le tappe e ritrovarsi nelle giovanili della Roma. Eppure, è anche il più vulnerabile. Andrea, mentre si specchia nel condiviso dolore da orfano, intuisce presto che il destino bisogna provare a cambiarselo. Magari tumulando la sofferenza, per l’insensatezza di una tragedia subita. Fondendo rabbia e amore, senza mai smettere, per tutta la vita, di tenere per mano il fratello più fragile.
Da come lo hai perfettamente descritto Andrea Carnevale è prepotentemente gli anni ’80: lucentezza e frivolezza in superficie, oscurità tremenda alle spalle. Ci sta come similitudine?
Senz’altro. Ad attrarmi, nella vicenda di Andrea, erano proprio i contrasti violenti del suo percorso, materiale fecondo per ogni narrazione. Poi il rapporto, tra noi due, è diventato di amicizia fraterna, e credo che questo abbia contribuito ad una narrazione calda, non asettica. Nell’arco di vita di Carnevale è rintracciabile
un frammento illuminante, dell’autobiografia di una nazione. Ha vissuto sulla sua pelle, sulle maglie sudate in campo e negli eleganti capi su misura, indossati nella mondanità notturna, i mutamenti antropologici di un paese sempre sospeso tra orrore e folklore, tra ferocia e sentimentalismo. In brusco transito da un mondo rurale alla società dello spettacolo, senza mai modernizzarsi pienamente, nonostante le illusioni da potenza industriale, del boom e delle sue varie repliche. Un paese senza nessuna etica condivisa, ma drammaticamente bisognoso di simboli ed eroi. Da gettare poi nella polvere, armati dal più ipocrita dei moralismi.
Andrea, senza poter contare su genitori, persi sanguinosamente e troppo presto, ha saputo orientarsi da solo, come un bimbo collodiano, in un sistema calcistico affollato di gatti, volpi, Mangiafuoco e omini di burro. Specchio nemmeno troppo deformante, della società italiana.
Usi uno stile di scrittura molto serrato. Lo hai preso da qualche riferimento letterario o in parte riporti tue esperienze legate al cinema anche in questo lavoro appunto letterario.
Leggo il più possibile, e divoro cinema da sempre, ma cerco di non diventare un imitatore di ciò che amo.
Ho provato a restituire l’essenza di una vita. Conservando un equilibrio, tra ritmo narrativo e una scelta lessicale mirata a restituire il maggior numero di sfumature, di una vicenda complessa. Nel mio piccolo, potevo capire che cos’è ritrovarsi da giovanissimo con un’esistenza frantumata, e provare a ridisegnarla, a colpi di volontà. Credo, o almeno spero, che questo mi abbia tenuto al riparo dalla retorica, dai compiacimenti di maniera.
Cosa univa nel profondo Carnevale e Maradona?
Se Maradona appartiene alla sfera del Divino, e Carnevale a quella dell’umano, Diego e Andrea sono due ragazzi molto simili, provenienti da due sud del mondo distanti e vicinissimi. Ritrovandosi a vivere la prima, fondativa, stagione di trionfi, nella città più iperbolica e chiaroscurale del Mediterraneo, ne sbafano tutto il gusto, con fame antica.
Rimanendo entrambi fedeli alla stessa radice popolare, a una forma di pudore che nessun eccesso può contaminare.
Due anime sensibili, unite istantaneamente da una complicità viscerale. Da un rispecchiamento emotivo e profondo, che non ha mai avuto bisogno di troppe parole, ma solo di abbracci forti, come dopo un gol. Un legame resistente al mutare delle stagioni, fino al malinconico epilogo maradoniano.

Il rapporto con Ottavio Bianchi è peculiare. Se la loro relazione lavorativa fosse durata un’ora: si sono odiati per 55 minuti, amati per 5 ma cercati per cambiare l’altro per 60. Non ti sembra molto strano?
Il calcio è il gioco delle parti, delle collusioni tanto distorte quanto efficaci. Di odi brucianti che sembrano amori, e che forse, a ben guardare, lo sono davvero.
Ottavio Bianchi, lombardo dall’etica concreta e cervello fine, arriva in una Napoli che conosce bene, per i suoi trascorsi da calciatore. Pieni di frustrazione per le vittorie mancate, nonostante i fuoriclasse in rosa. Con quei due scafatissimi uomini di mondo di Allodi e Ferlaino, concorda una conduzione dura, come la chiama lui. Forse l’unica possibile, per un mucchio talentuoso e selvaggio. Gli otto gol di Andrea nella stagione 86-87, secondo cannoniere azzurro dopo Maradona, sono pieni della rabbia rivendicativa dell’escluso. Però sono decisivi per lo scudetto. Un bravo allenatore è un pedagogo imprenditore, uno sfruttatore di talenti dal volto più o meno umano. Un calciatore decisivo è un narcisista paradossale, al servizio di un collettivo. Figure contraddittorie. Umane, troppo umane, come il rapporto intenso che lega tuttora Bianchi e Carnevale, nella stagione riflessiva della maturità.
Dopo Italia ’90 anche in maniera repentina tramonta. Quel Mondiale, in cui doveva essere uno degli eroi per finire invece in tribuna, è contato nella sua carriera successiva?
Il mondiale del 1990 è, per le aspirazioni italiane, spesso trasfigurate nel calcio, un’illusione di apoteosi, dissolta dalla brutalità di un crollo.
Curiosamente, quei dodici mesi avranno lo stesso impatto, nella storia individuale di Andrea. Si susseguono in sequenza l’estasi bissata del secondo scudetto col Napoli, il trasferimento nell’amata Roma (coronamento del sogno di suo fratello Germano), la titolarità dell’attacco azzurro nel mondiale, partner prediletto della stella annunciata Gianluca Vialli. Poi tutto si infrange nell’insulto in mondovisione a Vicini, dopo l’esplosione della meteora Schillaci. Andrea vedrà dalle retrovie il resto di un mondiale, perso al San Paolo, teatro di tutti i suoi grandi trionfi. Consolato in parte dal matrimonio con Paola Perego, vive in autunno prime giornate del campionato piene di gol, segnate da centravanti titolare della Roma. Sembra aver sfatato il sortilegio del Mondiale: per lui si riparla di Nazionale, di perdono viciniano, ma poi esplode lo scandalo doping, un peccato che si rivelerà molto veniale, ridimensionato negli anni. Ma in quel momento viene punito con la stangata di un anno di squalifica. Troppi alti e bassi, in un anno solo, per il trentenne Carnevale. Qualche traccia la lasciano, ma riuscirà a risollevarsi, almeno sul piano esistenziale
Sceglie di rimanere nel mondo del calcio ma in maniera laterale, occhieggiando dalle quinte lo spettacolo. Perché lo ha fatto?
Andrea è sempre stato un grande osservatore, sul campo e nella vita. Capace di comprendere il contesto tecnico e umano con un colpo d’occhio. Di adattarsi con intelligenza, rendendosi prezioso, spesso indispensabile. Ha sempre captato tracce embrionali del talento altrui, cominciando a farlo mentre giocava. Ai tempi di Avellino annunciò un grande futuro all’adolescente Nando De Napoli. Molti anni dopo, a fine carriera, intravide un fuoriclasse nel Bierhoff ascolano, bollato come bellimbusto solo decorativo da due vecchie volpi come Picchio De Sisti e Bruno Giordano, suo allenatore e suo compagno di squadra. Sono solo due delle sue innumerevoli intuizioni.
La sua scelta di non diventare la parodia di sé stesso, dopo aver smesso di giocare, magari straparlando di calcio nelle televisioni nazionali e locali, mi sembra un sintomo di maturità.
Da quasi venticinque anni Andrea Carnevale vive della sua intelligenza calcistica, e del suo occhio lungo. Scovando talenti nel mondo, e partecipando da protagonista al percorso esemplare dell’Udinese.
