Locos por el futbol – Intervista a Carlo Pizzigoni

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Locos_por_el_futbol_Carlo_PizzigoniIl libro “Locos por el futbol” non è analizzabile. Bisogna tenerlo lì, come le enciclopedie, ma anche come i romanzi che si ama rileggere o come le biografie dei personaggi che ci ispirano di più o come il libro di poesie che le hai regalto (e lei ti ha ridato indietro).
Tenerlo lì per farsi ammaliare, rapire, conoscere, cercare dettagli e scoprire sempre qualcosa di nuovo. Carlo Pizzigoni mette lì un libro da cui ripartire per la saggistica calcistica.
Basta mie parole inutili, parola a Carlo:

Come per tutti, il pallone e un po’ di regole le hanno portate gli inglesi insieme alle ferrovie. Ma da quel che emerge chiaramente dal libro, il calcio è in Sud America che sembra nascere davvero come sport, distanziandosi dal dopolavorismo anglosassone. Sei d’accordo? E intorno a quali principi si può affermare che il calcio sia nato in Sud America?
In Sud America nasce il calcio come lo intendiamo noi, con tutto quello che c’è attorno al campo da gioco. L’amore per il gioco stesso, l’hincha, ovvero il tifo, e tutto quello che è indescrivibile e ti fa vibrare e soffrire per la tua squadra. In fondo è un gioco ma dal Sud America nasce quella passione che ti prende dentro e ti entra nelle vene.

Esiste una differenza calcistica fra macroaree del Sud America (es. zona andina, zona atlantica, ecc.) Se sì, quali sono le caratteristiche principali delle diverse aree?
Esistono differenze che sono però più influenze ma non legate prettamente a zone geografiche. Il calcio colombiano ad esempio è una diretta emanazione del calcio argentino perché con Osvaldo Zubeldía nasce in Colombia un’idea di calcio professionale e tempo prima gli argentini si affermano in Colombia con Pedernera prima e Di Stefano poi.

Qual è stato per te il calciatore sudamericano che meglio ha saputo o sa esprimere lo spirito calcistico di quest’area del mondo?
Dire un nome è complicato. Il primo a cui penso è Di Stefano il quale non solo ha mostrato come un calciatore può essere tante cose nel calcio, ma perché ha avuto un aspetto tecnicamente e tatticamente rivoluzionario ripreso da Pedernera ma da lui evoluto. E poi Di Stefano, grazie a tutto questo, è il giocatore che inventa il Real Madrid. Al Real c’è un prima e dopo Di Stefano. Il Real che conosciamo oggi nasce con Alfredo Di Stefano.

Sampaoli, Bielsa, Martino, Pekerman, La Volpe. Negli ultimi dieci anni, al di là di Guardiola, alcune idee centrali per il calcio contemporaneo vengono proprio dal Sud America. Ci spieghi il perché di questo grande fervore?
Mi fai tutti esempi argentini, ma ci sono anche altri tecnici, come ad esempio Juan Carlos Osorio che allena il Messico ed è colombiano. Ci sono molti esempi in Sud America di sperimentazione calcistica, senza dimenticare però che la sperimentazione è concatenata. Sud America ed Europa non sono due mondi che non si parlano, ma si scambiano idee. Guardiola va a parlare con Bielsa, sul “Pais” viene esaltato La Volpe, tanti tecnici vanno a vedere allenamenti dei colleghi dell’altro continente. Rimane in Sud America questa voglia di approcciare al calcio in maniera sperimentale che nasce anche perché spesso bisogna arrangiarsi, lavorando in maniera artigianale più che scientifica. Quell’artigianato però ha dietro un pensiero poi declinato in maniera professionale. Tutto viene fuori dalla passione per il campo da gioco, per tutti ancora il luogo dove il calcio si fa.

Sei stato in tanti posti, ci dici tre stadi sudamericani dove bisogna assolutamente andare e perché?
Te li elenco per le principali nazioni sudamericane.
Uruguay – Estadio Centenario. Quando sono arrivato la prima volta sulla collinetta in cui si inzia a vedere lo Stadio ti inizia a battere forte il cuore non perché è una strada in salita ma perché ti rendi conto che quello è lo Stadio del primo mondiale, quando entri respiri qualcosa di unico.
Argentina – Gigante de Arroyito. Mai vista un’atmosfera del genere in uno stadio di calcio. Mi piace “La Paternal” per lo spirito differente che si sente, ma lo stadio del Rosario Central è unico.
Brasile – São Januário. Da quando il Maracanà è diventato uno stadio qualunque dopo il rifacimento per il Mondiale, il mio stadio rimane il São Januário, stadio degli anni 20, tenuto bene, al cui interno respiri la storia e ti sembra di sentire i discorsi di Getulio Vargas. È qualcosa di unico per la storia non solo del Vasco ma di tutto il Brasile.

C’è la storia di un calciatore sudamericano che non sei riuscito ad inserire nel libro?
Ci sono tante storie che si potevano inserire nel libro, però la bravissima editor che mi ha seguito, Elisabetta, mi ha giustamente detto: “Carlo non fare l’Enciclopedia Britannica” e mi sono un po’ limitato. Giusto così, questo libro deve essere un trampolino grazie al quale le persone si tuffano nel calcio sudamericano e nella storia del Sud America. Da lì poi cominciano a vagare dove vogliono. Una storia fra le altre che avrei desiderato approfondire era quella di El Loco Corbatta.

Nel libro tu ci parli di uno spirito, oltre che una tradizione che passa di generazione in generazione. Se nel futuro, come si prospetta, i calciatori sudamericani saranno spediti giovanissimi in Cina, Emirati ed Europa, questo spirito avrà tempo di attecchire?
Non so quello che può avvenire con questi nuovi mercati. In Sud America si mantiene lo spirito primigenio del gioco del calcio e fatico a pensare che un giorno si esaurirà. C’è uno spirito unico che difficilmente sarà replicabile in altri contesti mentre rimarrà sempre forte in Sud America.

Quale calciatore italiano secondo te farebbe bene in un campionato come quello argentino?
In tanti, sia del passato che del presente. Sicuramente Roberto Baggio avrebbe voluto giocare con la sua squadra del cuore, il Boca, ma a me piace pensare ad un altro gcalciatore: Daniele De Rossi, che una volta ha parlato del calcio argentino ed è uno dei pochi che ancora profuma di antico. In un calcio che ancora conserva l’antico come caratteristica, mi piacerebbe vederlo in Argentina.

“Locos por el futbol” è per me un libro da cui partire per una saggistica calcistica di alta qualità. Quali sono per te le caratteristiche principali che la letteratura sportiva italiana deve avere per affermarsi con maggiore forza nel mondo editoriale?
Io sono più che altro un lettore, questa domanda mi apre a mille scenari e non ho un’idea precisa. Non vedo una differenza fra letterature, la mia visione segue molto il lavoro che realizziamo con Federico Buffa dove non c’è un distacco fra cultura alta e bassa, riprendendo, da imitatori, quello che Chico Buarque faceva, parlando di calcio per poi realizzare capolavori in musica e letteratura. Quando sono andato a Montevideo per le ricerche per il libro ricordo le chiacchierate infinite con i librai di Montevideo. Lì si iniziava a parlare di Mario Benedetti per finire con Fabián O’Neill perché dentro c’era l’Uruguay, l’uomo e il calcio.

Con i programmi di Federico Buffa cerchi di “alleggerire” lo sproloquio sportivo del quotidiano. C’è un metodo di racconto su cui dobbiamo intellettualmente investire per il futuro?
Buffa in realtà è unico e io dico sempre che se vogliamo copiare qualcosa di Federico dobbiamo copiare le cose che non si vedono, intendendo la sua preparazione, il suo studio, il cercare di approfondire per cercare di legare diversi argomenti che apparentemente non sono legati, cercare di costruire una cultura che vada al di là dello sport. Ricordo in questo senso la frase di Victor Hugo Morales quando l’ho intervistato per Mondofutbol: “Il giornalista non deve fare scuola di giornalismo ma imparare a vivere”.

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