Quasi sempre in accordo con le tirate bartezzaghiane, oggi invece, sul tema del cuore, non mi trovo molto in sintonia. Del linguaggio del calcio, Bartezzaghi prende per il culo 3 elementi:
– Il tecnicismo. Le parole prettamente calcistiche nascono con Brera e non con Sacchi. Sacchi ha solo tradotto in italiano un lessico che si focalizza sui sistemi di gioco anglosassone e olandese degli anni ‘70, forzando la mano sulla new wave sociale imposta mediaticamente dal suo Presidente: far nasce un neo-calcio richiedeva un neo-linguaggio calcistico. Ma la madrelingua di Sacchi è Brera che mette insieme anglofonie e termini inglesi, epica e antropologia, tirando fuori i concetti primi del tecnicismo calcistico.
– Il linguaggio dei telecronisti. Mentre Carosio è il cantore, Martellini il giornalista realista, Pizzul il filodrammatico di cronaca nera, i nuovi telecronisti (quelli bravi ovviamente) sono prima di tutto gestori del flusso, aedi del ritmo sostenuto perché la nostra attenzione lo richiede. Essere sempre sovraritmo rispetto al gioco può creare, è vero, distonie a volte ridicole, ma solo così riusciamo a seguire una partita nel frastuono assordante del “dacci oggi la nostra partita quotidiana”.
– Rimbalzi con altri mondi: Questo è il punto in cui mi trovo maggiormente in disaccordo, anche perché se il tecnicismo rende asettico il discorso, le sinestesie dovrebbero alleggerirlo, e non inquinarlo come dice Bartezzaghi. Questo parlare di calcio attraverso metafore e paralleli presi da più campi, è il miglior portato della letteratura sportiva contemporanea al giornalismo di settore. I nuovi scrittori di sport (faccio dei nomi, anche se altri bisognerebbe citare: Cordolcini, Annese, Modeo, Zara, Garlando, Ferrato, Calzaretta, Di Corrado, mi ci metto pure io, e i padri: Berselli, Mura e Audisio) allargano lo spettro dei valori narrativi del calcio, che non è più solo antropologia, epica e storia del costume. È qualcosa di più che non ha avuto ancora una chiara sistematizzazione ma definisce una tendenza, ho paura a dirlo ma lo faccio, una scuola, che viene in parte dalla Gran Bretagna e in parte dagli Stati Uniti, ma si sta sviluppando come tutta italiana.