INTERVISTA A EMILIANO BATTAZZI, AUTORE DEL LIBRO “CALCIO LIQUIDO”.

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Emiliano Battazzi ha scritto per 66thand2nd un libro sull’evoluzione tattica del calcio in Italia (ma non solo). Il libro è assolutamente da leggere e qui potete comprarlo.

Oggi il vero mantra sembra essere giocare il più verticale possibile. Ho visto poche settimane fa dei gol del Foggia di Zeman in cui i calciatori tirano vere e proprie linee dritte per andare in porta (c’è un gol in cui l’azione comincia dal calcio d’inizio e si sviluppa con tre passaggi). Pensi che questa caratteristica del gioco zemaniano sia poco sottolineata oggi e, parlando di questo, che l’apporto tattico di Zeman sia troppo oscurato dalla logica del “non ha mai vinto niente”?

Ci sono tanti aspetti del gioco di Zeman che con il tempo si sono rivalutati, o meglio, hanno assunto una nuova valenza. Alcuni li ho citati nel libro (qui solo per esempio: lo sweeper-keeper), un altro è quello della vertigine verticale che tu giustamente menzioni – le squadre di Zeman andavano dritte per dritte. Ma ce ne sarebbero potenzialmente molti altri: mi viene in mente il ruolo dei terzini in fase offensiva, con azioni in cui un terzino crossa e l’altro segna – adesso è diventata una “signature move” dell’Atalanta di Gasperini. L’opinione pubblica ha determinato una visione manichea di Zeman, per cui lo ami o lo odi, e così in qualche modo ha reso superfluo ogni discorso analitico sulla sua figura di allenatore. Col senno di poi, e ormai con Zeman molto meno centrale nel discorso calcistico, è più facile ristabilirne i meriti.

Come scrivi correttamente nel libro, Sacchi vuol dire rivoluzione. Indichi tanti aspetti, perché non essendo un pranzo di gala coinvolge tanti ambiti. Ma qual è secondo te l’elemento principale per cui la rivoluzione sacchiana ha avuto questo impatto così trasformativo?

Difficile trovarne solamente uno: probabilmente è stata l’evidenza che anche una grande squadra europea, tra le grandi tradizionali, e in particolare del campionato più difficile al mondo come la Serie A in quegli anni, potesse giocare un calcio così intenso, corale, armonico e organizzato. Perché una cosa era il calcio olandese, il grande Ajax, o la scuola di Lobanovski alla Dinamo Kiev, un’altra era vedere tutto questo addirittura in una squadra italiana come il Milan. L’intensità del pressing e la sistematicità del fuorigioco sono apparse, alla fine degli anni ‘80, come uno squarcio sul campo: se vogliamo, gli anni precedenti avevano ristabilito il dominio del calcio dei grandi talenti individuali (Maradona, Falcao, Platini, Zico, ecc.), mentre Sacchi stava portando il calcio nella modernità. Noi ormai siamo abituati alle squadre corte e compatte, ai meccanismi di pressing, al fuorigioco, al talento che deve saper far parte di un’organizzazione di squadra. Viene tutto da lì (e ovviamente, da chi ci era arrivato prima di Sacchi). Quello che adesso per noi è difficile da comprendere è quanto fosse sconvolgente per la cultura calcistica dell’epoca: oltre a quelli già menzionati, penso ad altri aspetti come la zona pura, il cestinamento del libero, i movimenti ad elastico della linea difensiva. Era proprio un modo diverso di vedere il calcio, e aveva fatto il botto: scudetto e poi Coppa dei Campioni.

Sono sicuro che non hai potuto inserire tutti i pensatori/allenatori che volevi, anche per una questione di ordine. C’è un nome che non hai trattato o hai trattato pochissimo, ma che per te invece ha avuto la sua importanza per arrivare al calcio di oggi?

Purtroppo sì, ce n’erano molti altri da menzionare ma poi il libro si sarebbe trasformato in un magma disordinato. Nel libro ho preso in considerazione solo gli ultimi 30 anni di Serie A, con l’unica eccezione del Milan di Sacchi, escludendo chi magari era all’apice negli anni ‘80: Trapattoni, ad esempio – o Nils Liedholm, che è appena menzionato nel testo. Uno come Galeone, il cui grande Pescara era coevo del Milan di Sacchi, avrebbe potuto sicuramente essere trattato. Galeone è stato un allenatore carismatico che ha influito sul calcio contemporaneo se non altro con i suoi ex giocatori diventati allenatori (su tutti, Gasperini e Allegri, che lo citano come riferimento). Tra quelli degli anni successivi, che avrebbero potuto essere inseriti, cito Prandelli, sia per il suo primo ciclo alla Fiorentina, che per il tentativo di impostare un nuovo percorso di gioco per la Nazionale, purtroppo concluso in modo disastroso.

Quali possono essere secondo te le novità tattiche nel futuro prossimo (si parla di un nuovo libero che rompe le linee di pressione portando la palla, oppure l’evoluzione ancora più sistemica dell’anti-terzino guardiolano).

Nel libro ho provato ad accennare a qualche sviluppo, tra cui proprio quello del libero di cui parli, ma la verità è che delineare le tendenze future nel calcio è sempre molto difficile. Quando finirà l’epoca di Guardiola e Klopp, magari assisteremo a un ritorno di allenatori e squadre con atteggiamenti più speculativi e magari torneranno anche i grandi giocatori specialisti – il calcio segue un andamento circolare, al progresso si contrappone sempre una fase di restaurazione. Il dinamismo e l’intensità sembrano aumentare sempre di più, questo sì, e la mia curiosità è sapere cosa succederà ai grandi giocatori di talento. Quello che riesco a immaginare è che se tutti intorno vanno veloce, il ruolo di certi giocatori in grado di dare pause, di gestire il pallone, potrebbe tornare alla grande. Chiamiamolo progetto “Riquelme 2040”.

Nell’atavica lotta fra schematismi e interpretazioni, chi vincerà (solo la prossima battaglia, s’intende)?

In questa fase mi sembra che molte contrapposizioni calcistiche si stiano sciogliendo: le squadre devono saper indossare tutti gli abiti tattici possibili; gli allenatori devono avere principi solidi, essere grandi tattici, grandi organizzatori e grandi comunicatori; i calciatori devono essere tecnici, intelligenti, rapidi e funzionali. Mi interessa quasi di più sapere quale sarà la prossima battaglia: ormai dire che una squadra è reattiva o proattiva non significa più molto. Si può giocare un calcio molto offensivo anche tenendo poco il pallone, si può usare il tikinaccio come strategia difensiva. Il titolo del libro si rifà proprio a questa tendenza: sarà bello vedere se ci sarà un’inversione di tendenza, oppure andremo sempre più verso squadre polifunzionali.

Spieghi molto bene nel libro che alcune idee ed evoluzioni tattiche sono venute fuori dal caso (esempio: un’espulsione di Genaux che costringe l’Udinese di Zaccheroni a giocare con 3 difensori). Che peso dai all’intuizione? O alla fine pensi che tutto venga fuori comunque da un processo di maturazione che sarebbe arrivato a quel punto?

Il calcio è un gioco a punteggio basso, in cui i singoli episodi sono spesso determinanti, e di conseguenza lo sono anche le intuizioni degli allenatori. Si tratta di una particolare forma di bravura, la percentuale di successo è minima: quante volte vediamo squadre in difficoltà, senza giocatori importanti infortunati e squalificati, e non succede niente? Poche volte capita l’intuizione di Zaccheroni, o Spalletti che senza attaccanti decide di ripescare dal passato il falso nove, visto che Totti sapeva fare tutto. La tua è una domanda filosofica, che puoi ribaltare in qualunque aspetto della vita. E anche nel calcio, se consideriamo un altro tipo di intuizioni: se Berlusconi non avesse chiamato Sacchi alla guida del Milan (una scelta completamente illogica, dovuta sostanzialmente alle partite di Coppa Italia del Parma contro il Milan), come sarebbe il calcio contemporaneo? Forse, come dici tu, ci sarebbe stato comunque un percorso di maturazione di certe idee, che sarebbero arrivate al successo con qualche anno di ritardo. O forse no.

E se la rivoluzione del futuro sarà lasciare il pallone agli altri per poter giocare quasi esclusivamente in transizione offensiva?

Rangnick dice che le fasi di transizione saranno i momenti più importanti delle partite del futuro: già adesso sono molto importanti, ma non credo che l’evoluzione sarà così distopica. Ci si è provato a lasciare il pallone agli avversari in tutti i modi, il Leverkusen di Roger Schmidt era arrivato addirittura agli errori volontari, con passaggi sbagliati indirizzati in una zona densa di giocatori della propria squadra. Per me anche l’evoluzione più ragionata del gegenpressing di Klopp dimostra che nel calcio contemporaneo non puoi saper fare bene una sola cosa, ma tutte. Facile a dirsi, ovviamente.

La Nazionale campione d’Europa è profondamente e strutturalmente una squadra sarriana quasi in ogni aspetto. È una mia fissa?

Le Nazionali sono sempre un po’ un riflesso di quanto succede nei rispettivi campionati, è inevitabile. Sicuramente la Nazionale di Mancini condivide un certo approccio calcistico con le squadre di Sarri – in particolare il Napoli – ma è difficile quantificare l’influenza diretta. La Nazionale mi sembra ad esempio molto meno codificata, se vogliamo anche meno ordinata – e un filo meno diretta del Napoli di Sarri, che quasi rifuggiva il passaggio in orizzontale. Però è bello cercare le origini di questo successo, perché lo stile di gioco della Nazionale non cade dal cielo, e sicuramente ci sono influenze anche del Sassuolo di De Zerbi – e il ruolo ibrido di Spinazzola è un segno di Fonseca. Si potrebbe andare avanti a lungo, ad esempio anche provando a vedere le influenze sui singoli: allora si ritorna persino al Pescara di Zeman, con Verratti, Insigne e Immobile. Ricordando i problemi della Nazionale di Ventura, però, mi sembra giusto sottolineare che il successo della Nazionale agli Europei è soprattutto un grande successo di Roberto Mancini: la sua rivoluzione calcistica è riuscita, e si sa che in Italia le rivoluzioni sono rarissime.